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Meloni, Orsina schianta la sinistra: "La attaccano sul fascismo ma..."

Annalisa Chirico
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«Giorgia Meloni deve trovare il modo di disinnescare la “bomba” politica delle proprie origini. Non si tratta di rinnegare quelle origini ma di superarle”, dice così a Libero il professore Giovanni Orsina, direttore della Luiss School of Government, in una conversazione a tutto campo sulla destra di oggi e domani. «Meloni si sta muovendo molto bene, e se ne sono accorti tutti, da Washington a Bruxelles. Proprio per questo la attaccano sulle origini, perché è difficile criticarla sulle scelte politiche di fondo. Fratelli d’Italia è passato dal 4 al 26% in una manciata d’anni: è comprensibile che incontri difficoltà nel governare un Paese, complicato, del G7. Alla lunga, questo è il collo di bottiglia più pericoloso. Meloni deve trovare il modo di trasformare Fdi in un partito dei conservatori a vocazione non identitaria ma maggioritaria. Deve aprire. Con prudenza ma senza reticenza».

 

 

 

Serve un nuovo partito a destra?
«Non necessariamente. Di certo, serve un grande lavoro culturale. L’identità va ripensata guardando alla società che ci circonda, molto diversa da quella di cinquant’anni fa. La riflessione, a destra, non può certo fermarsi a Prezzolini: un intellettuale di valore, ma di un’altra epoca. Di idee in giro, anche fuori d’Italia, ce ne sono pochissime. Se i conservatori crescono nelle elezioni non è perché si siano rinnovati culturalmente e politicamente, ma perché rispondono alle richieste di sicurezza degli elettori. La costruzione di un nuovo conservatorismo culturale e politico è il “predellino” al quale Meloni è chiamata se vuole consolidarsi in Italia e in Europa, e conquistare un consenso di lungo periodo che copra questa legislatura e magari anche la prossima».

Eppure una premier giovane e moderna, la prima donna a Palazzo Chigi, sembra inseguita da un passato che neppure le appartiene. Dalla Resistenza al terrorismo nero: come se ne esce?
«Serve la politica. Il passato che ritorna va disinnescato politicamente. A me alcuni dei discorsi chiave di Meloni non sono affatto dispiaciuti: dalle celebrazioni del 25 aprile alla condanna delle leggi razziali e dell’antisemitismo, ma pure il discorso di insediamento. Da liberale, secondo me c’era tutto quello che doveva esserci. Il problema è quando, oltre a Meloni, parlano le persone che la circondano. Soprattutto quan do l’uno dice una cosa, l’altro ne dice un’altra. Così il passato non solo non viene disinnescato: al contrario, viene offerto su un piatto d’argento alle opposizioni. Che, giustamente, ne approfittano. Sulla strage di Bologna è andata così».

Il famigerato post di Marcello De Angelis... In uno stato di diritto le sentenze si possono criticare?
«Certo, ci mancherebbe pure! Per sollevare dubbi sulla sentenza su Bologna, come su ogni altra, non bisogna essere fascisti, basta essere liberali. Insegno storia, e gli storici hanno il dovere professionale di rimettere costantemente in discussione la ricostruzione del passato. Lo storico deve tener conto delle risultanze processuali, sono anch’esse una fonte. Ma non è vincolato da alcuna sentenza. La verità storica non ha nulla a che vedere con la verità giudiziaria, e hanno entrambe poco a che vedere con la verità che - in quanto tale - è irraggiungibile. La sentenza sulla strage di Bologna è certamente discutibile. E sull’intera vicenda grava un enorme carico di cospirativismo».

De Angelis doveva evitare quel post?
«Sì, ma per ragioni politiche, non di merito. Il tallone d’Achille della premier è la sua cultura di provenienza. E gli esponenti del suo partito che continuano a mettere quel tallone in bella mostra non le fanno un buon servizio. E non lo fanno nemmeno a se stessi. C’è un compiacimento identitario che diventa autolesionismo politico».

Sembra che gli esami per Meloni non finiscano mai.
«Non fare sconti, scovare sempre la presunta reticenza, qualunque cosa lei dica, è il lavoro dell’opposizione. Meloni condanna le leggi razziali e loro dicono: non condanna il fascismo. Lei condanna il fascismo e loro replicano: non ha usato l’aggettivo giusto. È un gioco delle parti».

Ma sposta voti?
«Manco uno. La premier si sta muovendo bene, con estrema prudenza. Dicevano che avrebbe sfasciato i conti pubblici, e non lo ha fatto. Doveva mettersi in rotta di collisione con Bruxelles, e invece vanno d’amore e d’accordo, anzi ha strappato pure un patto sui migranti. Attaccarla in quanto populista diventa sempre più difficile. E allora la si attacca perché post fascista».

In che senso Meloni dovrebbe disinnescare la “bomba” politica delle sue origini?
«I leader politici di quest’epoca, cresciuti in fretta e non sostenuti da partiti forti, tendono a rinchiudersi nella propria tribù. Prima di Meloni lo ha fatto Matteo Renzi. Il riflesso tribale è comprensibile, ma sul medio periodo letale: il caso renziano è da manuale. Fdi è la tribù di Meloni: tribù in senso quasi letterale, direi, cementata dai rapporti personali ed esperienze comuni, da legami antropologici, prima ancora che da un’ideologia. L’aggravante di questa tribù è che al centro della sua identità c’è la sindrome del “polo escluso”, la tendeza a trasformare il ghetto politico nel quale si è stati rinchiusi in un motivo d’orgoglio. Una sindrome micidiale: un misto di rivendicazione, lamentazione e orgoglio identitario che non porta da nessuna parte. E che peraltro poco si addice a una leader che è stata il ministro più giovane della storia repubblicana».

Gianfranco Fini, artefice della svolta di Fiuggi e protagonista di un memorabile viaggio in Israele già nel 2003, era coccolato a sinistra. A Meloni invece non gliene fanno passare una.
«Ai tempi di Fini, Berlusconi dominava ancora la scena politica. E il conflitto di interessi “tirava” più del post fascismo. A un certo punto, poi, Fini è pure diventato strumentale all’antiberlusconismo, e ricordiamoci che peana. Adesso che Berlusconi non c’è più, il bersaglio principale si chiama Giorgia Meloni. Che non ha conflitti di interessi, ma un’origine postfascista».

 

 

 

Sul Corriere Antonio Polito ha scritto che il governo ha esercitato il suo nuovo potere «con maggiore furia e zelo» nella conquista della Rai che nella guida delle aziende partecipate. La destra è più interessata all’egemonia culturale che al controllo dell’economia?
«È più facile controllare la cultura che l’economia. Le partecipate hanno a che fare con il “vincolo esterno”, gli alleati, gli investitori, le borse. A capo di Eni, per dire, devi indicare una persona che garantisca un sistema di rapporti, da Washington a Bruxelles passando per l’Africa. Sul terreno culturale e identitario c’è molta maggior libertà. Agli americani, all’Europa, alle borse della Rai non importa nulla».

Secondo il dg Giampaolo Rossi, la nuova Rai mira a «raccontare l’Italia com’è realmente, non come qualcuno la vorrebbe». Lei che ne pensa?

«È una mossa nella direzione di una cultura conservatrice, ma rischia pure di ridursi a un’iniziativa provinciale, a una celebrazione di Strapaese che oggi servirebbe a poco. Insomma: il progetto può essere condivisibile, il problema è come lo si attua. La Rai è sempre stata terra di conquista, per tutti. Politica e cultura progressiste ci hanno pascolato per decenni ricavandone potere, posti, soldi. Chi oggi si lamenta dell’arrivo della destra è poco elegante e molto ipocrita- e infatti non trova ascolto presso l’opinione pubblica. Detto questo, per pensare un conservatorismo del ventunesimo secolo lottizzare la Rai non è certo sufficiente. Quel conservatorismo richiede che si torni al “vistocogliocchi” e si lavori meno sul ‘sentitodire’ - per utilizzare due termini di Stefano d’Arrigo. Che si torni a vedere gli esseri umani non per come si vorrebbe che fossero ma per come sono: contestualizzati».

In che senso?

«Quello che chiamiamo populismo, a mio avviso, rappresenta una reazione contro il tentativo di de-contestualizzare gli esseri umani, di trasformarli in cittadini globali. Ogni persona vive di radici, tradizioni, identità. Il mondo globalizzato è un fatto con il quale occorre fare i conti. Ma lo si è spinto troppo avanti, e questo ha ingenerato una reazione antropologica. È su questa reazione che si dovrebbe costruire un conservatorismo adatto al ventunesimo secolo»

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