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Democrazia debole, una riforma per superarla: cambiamento necessario

Francesco Carella
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Scriveva negli anni ’60 il costituzionalista Giuseppe Maranini che «il nostro Paese ha conosciuto governi democratici deboli sia nell’Italia liberale che in quella repubblicana e governi forti solo sotto la dittatura. A noi manca l’esperienza dei governi democratici forti, che è poi l’esperienza delle migliori democrazie». Alla vigilia di un’importante riforma costituzionale che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio vale la pena di alzare lo sguardo oltre la cronaca (inutilmente ricca di polemiche) per rintracciare lungo la storia italiana i fattori che più hanno contribuito a rendere il nostro sistema politico instabile a tal punto da non trovare riscontri in altre democrazie occidentali.

Le ragioni sono due ed entrambe riconducibili alle peculiari caratteristiche dei processi di formazione degli schieramenti politici di destra e di sinistra. In Italia non è mai nato un vero partito conservatore così come nella sinistra è sempre stata maggioritaria, fin dai primi anni del Novecento, l’anima rivoluzionaria. La mancata costituzione di un partito conservatore secondo l’alfabeto delle democrazie liberali è da ricondurre alle modalità attraverso cui è stata raggiunta l’Unità, là dove- come scriveva nel 1882 lo storico e politico Ruggero Bonghi – «l’élite liberale per ragioni legate all’urgenza di costruire l’Italia ha dovuto disconoscere i diritti acquisiti, gli interessi legittimi e la stessa coscienza religiosa. Tutti elementi preesistenti al 1861». Si tratta di un percorso diametralmente opposto rispetto a quello che dovrebbe seguire una formazione conservatrice sorretta dalla convinzione che “non vi è Stato senza nazione”.

LA VIA DELLA MEDIAZIONE
Un’eredità che ha segnato negativamente la vicenda politica del nostro Paese al punto che fino all’arrivo di Giorgia Meloni non vi è traccia di leader che abbia mai difeso pienamente e pubblicamente l’identità italiana nella sua espressione valoriale e religiosa. Per oltre un secolo e mezzo di storia nazionale alla chiarezza di una proposta conservatrice è sempre stata preferita la via, tradizionalmente instabile, della mediazione trasformistica. L’altro fattore che ha concorso non poco ad allontanare dal nostro Paese ogni scelta in grado di garantire la stabilità di sistema è legato alla presenza di una sinistra con una marcata vocazione massimalista e, pertanto, scarsamente affidabile sul terreno della democrazia liberale.

Tali anomalie risultarono decisive in sede di Assemblea Costituente al momento di disegnare l’architettura della neonata Repubblica. Venne individuata nella centralità del Parlamento, a scapito dei poteri e della funzionalità dell’esecutivo, la “migliore garanzia perché nessun partito potesse governare in modo efficace ed autonomo”. Si posero, in tal modo, le basi per la nascita della partitocrazia ( il termine fu introdotto dal sopra citato Maranini ) e delle sue successive degenerazioni. Forse i tempi sono maturi per prendere atto che le ragioni storiche che hanno portato alla scelta di una forma di “democrazia debole” sono state largamente superate. Coloro che gridano al pericolo autoritario ogniqualvolta si parla di “governi democratici forti” temono solo di perdere la possibilità di potere andare al governo, senza vincere le elezioni. 

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