Era iniziata con Roberto Saviano che accusava il governo Meloni (persino dopo la cattura di Matteo Messina Denaro) di essere «il meno antimafioso della nostra storia», mentre Cafiero De Raho, ex procuratore nazionale antimafia entrato in parlamento coi Cinque Stelle, denunciava che «al governo non hanno capito cosa sono le mafie», e Giuseppe Conte lanciava l’allarme per il «depotenziamento degli strumenti d’indagine contro mafia e corruzione» ad opera dell’esecutivo. Come finirà lo vedremo al termine dell’avventura, ma una prima certezza già c’è: è la sintonia tra la presidente del consiglio, il procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, e i ventisei procuratori distrettuali antimafia. Giorgia Meloni li ha incontrati lunedì nella sede della Dna, accompagnata dal sottosegretario Alfredo Mantovano e dal guardasigilli Carlo Nordio (due magistrati, guarda caso), ma alla fine è stato un dialogo tra lei e quei ventisette titolari delle indagini su Cosa Nostra.
In tanti hanno chiesto l’istituzione dei tribunali distrettuali e manifestato preoccupazione per la digitalizzazione degli uffici in vista del processo telematico, che nel 2024 dovrebbe entrare in vigore per ogni ordine e grado di giudizio. È andata così bene a Meloni che, a cose fatte, agli irriducibili della magistratura rossa non è rimasto che prendersela con Melillo, “colpevole” di aver schierato l’intera magistratura antimafia al cospetto della premier. Proprio lui, che mai è stato considerato vicino alla destra, e che era stato capo di gabinetto di Andrea Orlando quando il piddino era ministro della Giustizia nel governo Renzi.