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Elly Schlein, il retroscena: i fondatori del Pd sono stufi di lei

di Francesco Damato lunedì 10 marzo 2025

3' di lettura

Luigi Zanda, 82 anni e mezzo magnificamente portati, intervistato per La Stampa da Fabio Martini che ne ha ricordato la partecipazione, con altri 44 amici, più che compagni, alla fondazione del Partito Democratico, nel 2007, ha impietosamente denunciato la necessità di un congresso anticipato, straordinario e quant’altro per la inadeguatezza, ormai, della sua linea nella nuova situazione internazionale. Nella quale la segretaria Elly Schlein, anche se Zanda ha cercato di contenersi nelle parole, si muove con una certa confusione o indecisione, a dir poco.

Se poi dal congresso, da svolgere non più tardi delle prime settimane dell’anno prossimo, dovesse venire fuori l’opportunità o necessità di cambiare segretario, senza più consentire che a sceglierlo siano più gli esterni che gli iscritti al partito, com’è accaduto anche per la Schlein, tanto meglio.

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«Lei pensa- gli ha chiesto, in particolare, l’intervistatore- che il Pd dovrebbe cambiare segretario?». «Quello che è necessario per il Pd- ha risposto Zanda- è una rigorosa e profonda riflessione sulla politica internazionale. Se da questo confronto dovessero emergere posizioni e candidature diverse, questo non lo possiamo sapere. In ogni caso il Pd avrebbe il dovere, anzi la necessità, di cambiare lo Statuto e decidere una volta per tutte se il segretario lo scelgono gli iscritti, oppure se chiunque possa continuare ad andare ai Gazebo, anche se non vota Pd, anche un avversario». Infatti sull’elezione della Schlein pesa l’ombra dell’aiuto ricevuto nelle primarie dai simpatizzanti ed elettori pentastellati.

Di fronte alla chiarezza, se non perentorietà e spietatezza di queste parole, peraltro in una situazione interna di partito in cui si mescolano le peggiori abitudini correntizie del Pci e della Dc, tra allusioni e messaggi in bottiglia, più che della partecipazione alla fondazione del Pd, di cui è stato anche tesoriere e capogruppo al Senato, di Zanda andrebbe ricordata la scuola di Francesco Cossiga che ha frequentato. Lavorando con lui prima al Ministero dell’Interno, nel periodo peraltro dal sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro, e poi a Palazzo Chigi. E infine lasciando prudentemente Cossiga al Quirinale nelle mani di un diplomatico di carriera come Ludovico Ortona: una specie di ammortizzatore professionale di quella macchina imprevedibile e travolgente che era appunto il conterraneo e ormai amico di Zanda.

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Di stile tutto cossighiano ho trovato anche la parte dell’intervista alla Stampa nella quale Zanda non si è lasciato trattenere da nessuna paura, ipocrisia e simili per contestare la demonizzazione che si fa al Nazareno della premier Giorgia Meloni. «Questi due anni e mezzo di governo - ha detto Zanda commentando “lo spazio contro” attribuito alla Schlein dall’intervistatore non sembrano avere indebolito la presidente del Consiglio, anzi. Ora lei cerca di stare in equilibrio tra l’Europa e Trump, pur tra difficoltà. L’impresa le sta riuscendo». Meglio, credo, di quanto la Schlein stia cercando di fare nel campo della sinistra europea nei rapporti con i socialisti spagnoli e tedeschi. Che strabuzzano gli occhi a vederla e soprattutto ad ascoltarla negli incontri alla vigilia dei vertici comunitari. Incontri nei quali la segretaria del Pd è condizionata più dalla paura che ha in Italia di Giuseppe Conte che dai problemi dai quali sono presi i suoi interlocutori del Partito socialista europeo.

«Se il campo largo di fatto non esiste più- ha detto Zanda a questo proposito - significa che essere stati testardamente unitari non è servito a niente».
L’ex presidente del Consiglio Conte, peraltro, nella botte pacifista nella quale si è demagogicamente chiuso, col suo nome Giuseppe rigorosamente al singolare, ogni tanto trova anche il modo e il tempo di irridere alla «confusione» di Schlein e del Pd. Una situazione paradossale. Da Carnevale, direi, che però sta finendo anche nella coda di rito ambrosiano.

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