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Le ricette di Tremonti per i mercati

Il quattro volte ministro delle Finanze commenta il nuovo ordine trumpiano e avvisa: "I confini vengono attraversati o dalle merci o dagli eserciti"
di Costanza Cavalli sabato 12 aprile 2025

3' di lettura

Più simile a un giocatore d’azzardo che a un artista degli affari, durante la settimana Donald Trump s’è preso dei rischi con il mercato azionario inimmaginabili persino per lui. «Un tempo, dalla realtà venivano tratti i reality. Oggi stiamo assistendo a uno stravolgimento: sono i reality che fanno la realtà». A parlare, a mezzo volume, con inflessione mononòta, forse con la perizia di nascondere l’apprensione, è Giulio Tremonti. Lo show, inoltre, è solo ai primi minuti: i dazi, ha scritto sul Financial Times il consigliere per il commercio del presidente, Peter Navarro (quello «più stupido di un sacco di mattoni», cit. Elon Musk), «sono solo l’inizio».

Accanto a lui, Stephen Miran, presidente del Consiglio dei consulenti economici del presidente, e Scott Bessent, segretario al Tesoro. Entrambi pregustano «una sorta di riorganizzazione economica globale»: un accordo valutario internazionale simile agli accordi di Plaza degli anni ‘80 o a quelli di Bretton Woods degli anni ’40 e che prenderebbe il nome di “accordo di Mar-a-Lago”. Di un nuovo standard si parla, e da tempo, anche a 7.800 chilometri di distanza e di recente in “Guerra o pace” (Solferino, pp. 144, euro 16,50), il nuovo lavoro di Tremonti, oggi presidente della Commissione esteri della Camera. «Dopo la crisi del 2008, avanzai l’ipotesi di nuovi accordi di Bretton Woods, un Global Legal Standard che riunisse gli interessi di Stati Uniti, Paesi del G7 e Cina – ricorda a Libero il quattro volte ministro delle Finanze – L’intento era completare l’ordine monetario con regole economiche e sociali. Rilevata l’assurdità di un mondo in cui l’unica regola è l’assenza di regole, già nel G7 economico del 2003, si passò dalla tradizionale formula del free trade al quella del fair trade: fu un successo italiano».

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All’epoca, però, sottolinea, «c’era stabilità politica, oggi non è così». Il puzzle dei dioscuri di Trump punta a rimborsare gli Stati Uniti degli oneri che hanno sostenuto non solo offrendo sicurezza militare agli alleati ma anche fornendo al mondo intero un sistema finanziario basato sul dollaro. Miran, in un saggio pubblicato sul sito della Casa Bianca, scrive che l’utilizzo del dollaro quale valuta di riserva «ha causato persistenti distorsioni valutarie e ha contribuito, insieme con le ingiuste barriere commerciali di altri Paesi, a deficit commerciali insostenibili». L’accordo di Mar-a-Lago punta quindi a reclutare i maggiori partner commerciali e creditori degli Stati Uniti in un ordine che li vedrebbe lavorare di concerto per indebolire il dollaro statunitense, così da abbassare i costi di prestito americani e incoraggiare maggiori investimenti, e quindi creare posti di lavoro, nel settore manifatturiero negli Stati Uniti.


Il tutto preservando il primato del dollaro sulla scena internazionale. Come? I creditori statunitensi dovrebbero accettare di scambiare i titoli di Stato detenuti dalle loro banche centrali con “obbligazioni del secolo” centenarie non negoziabili. E come convincere gli alleati? Con il bastone dei dazi unilaterali, sostiene Miran, arciconvinto dell’efficacia della strategia, e la carota delle continue garanzie di sicurezza e assistenza. La necessità di mettere un punto a questo “non-sistema” monetario, durato ben più a lungo di Bretton Woods, si spiega con la parabola della globalizzazione: «Nel 1994 era un meccanismo politico che si reggeva sull’ultima utopia del Novecento, quella mercatista – spiega il deputato – Ideologia che prevedeva il primato del mercato, macchina infallibile del bene economico, politico, morale, rispetto a ogni altra forma sociale e culturale, cioè i popoli, gli stati, il pensiero». La globalizzazione, scrive Miran, ha «decimato il nostro settore manifatturiero, molte famiglie della classe operaia e le loro comunità»: la working class che ha raccontato J.D. Vance. Tremonti, già nel ’94, ne Il fantasma della povertà, vaticinava: «L’Occidente oggi esporta capitali, un giorno importerà povertà». Il 5 novembre però «il fantasma si è svegliato, ha votato repubblicano e ha bucato la bolla».


Nuovi accordi sono quindi «necessari per il futuro della working class e per risarcirla del danno subìto, ma – distingue il professore – il dramma non fu della ruling class, di Wall Street, di Mar-a-Lago...». Un paradosso? «Una contraddizione in termini» perché tranne il vicepresidente, la compagine che frequenta la Florida è composta da miliardari gestori di fondi speculativi. «Posso fare un inciso? - chiude Tremonti – la globalizzazione l’ha fatta l’America, mica noi, chiedano a Bill Clinton. C’era certamente gente in buona fede, ma c’erano anche i banchieri. Bisogna stare attenti perché i confini che non sono attraversati dalle merci, sono attraversati dagli eserciti».

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