Il voto di Genova e di altri Comuni che ieri hanno scelto i loro sindaci non è un trend nazionale, il centrosinistra lo “vende” in tv come un cambio di scenario, ma tutti sanno che il quadro nazionale è ancora di segno opposto: il centrodestra domina in tutti i sondaggi, il consenso dei partiti della maggioranza è solido, la fiducia nella premiership di Giorgia Meloni è alta, la sua leadership è riconosciuta a livello internazionale, il centrodestra guida 14 Regioni su 20, il governo è un caso unico di stabilità in Europa.
L’unica domanda che conta oggi è se l’alleanza costruita per vincere le elezioni comunali a Genova è replicabile su scala nazionale. La risposta è che la grande ammucchiata per il centrosinistra resta l’unica via per sfidare la maggioranza, non ci sono altre strade, perché il Pd non è un partito abbastanza grande per fagocitare gli altri, mentre i suoi alleati sono piccoli, ma con il potere di “far perdere” in caso di corsa solitaria nella zona progressista.
L’alleanza tra partiti diversi e distanti è dunque un fatto ineludibile, lo psicodramma è quello di provare a capire cosa vogliono. Non si capiva a Genova, figuriamoci cosa capiterà quando correranno insieme per il voto nazionale. Non a caso i messaggi dei leader puntano tutti sulla parola «unità», quella della coalizione, concetto che va tradotto come la necessità di dar vita a un cartello elettorale delle sinistre per giocare la partita delle elezioni politiche. Questo e niente più, l’ammucchiata del «poi si vedrà».
Tutti contro Meloni, ma per fare cosa? Qui sta il grande enigma della Santa Alleanza Progressista, la sua crisi permanente che gli italiani colgono benissimo. Non appena si passa dagli slogan al programma, esplodono le contraddizioni, le distanze siderali tra Pd e Cinque Stelle, tra Avs e Italia Viva, tra renziani e calendiani. La sceneggiatura è già scritta: potrebbero vincere le elezioni, ma poi non riuscirebbero a governare. L’Ulivo di Prodi naufragò di fronte all’impossibilità di conciliare gli opposti e dopo l’era del Professore-federatore i post-comunisti nelle loro varie sigle sono saliti al potere privi di una forte investitura popolare, sconfitti ma sempre in carrozza. Dal 2013 al 2022, la sinistra è andata a Palazzo Chigi con Letta, Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi, nel voto del 2022 il governo Meloni ha rotto questa alchimia dei perdenti, questo è il trauma che il Pd non riesce a superare, non è più nella stanza dei bottoni e sa che non c’è una via ribaltonista per smontare il governo.
Il centrodestra corre rischi? Certo, perché è esposto agli shock geopolitici e alle tensioni interne (tutti sono in competizione con tutti, comprensibile, qualche volta sarebbe più utile il silenzio), ma governa e dunque ha a disposizione la leva dell’esecutivo per dare risposte agli elettori. La prossima legge di Bilancio e una serie di riforme in cantiere saranno decisive, servono alla maggioranza per lanciare il finale della legislatura. Molti pensano che la chiave d’oro per aprire la porta della vittoria sia quella della riforma fiscale, ma ho visto molte campagne elettorali e conosciuto molti leader da vicino, ne ho raccolto entusiasmi e delusioni quanto basta per dire che non è solo una questione di tasse, gli elettori giudicano più di quanto si immagini il progetto complessivo della maggioranza, la sua cultura politica, guardano con attenzione a chi parla (e straparla) in tv, hanno un’agenda fatta di piccole cose quotidiane e di grandi sogni, soprattutto se ci sono figli da crescere e nipoti da accompagnare nella sfida della vita.
Quando si va a votare per il governo di Roma, gli italiani pesano altri fattori, scompare l’orizzonte locale, il quartiere diventa la piazza nazionale, il caffè al bar diventa (anche) dibattito sulla guerra e la pace, la stabilità e l’affidabilità, l’attenzione si concentra sulle qualità di chi si candida a guidare l’Italia e sulla coesione dell’alleanza. Il centrosinistra tassa e spendi non ispira fiducia, ha il chiodo fisso della patrimoniale, vuol far piangere i ricchi (che in realtà ricchi non sono, basta avere un’abitazione per entrare nella black list dei compagni), ma chi fa politica deve cogliere tutti i segnali, drizzare le antenne, accendere il radar, perché le elezioni si vincono solo se conosci l’avversario e hai una contro-narrazione efficace: c’è un estremismo diffuso, pericoloso, minaccioso nei confronti dei pochi che non si allineano al verbo della rotativa unica del giornalismo, i pifferai magici promettono miracoli economici, più bonus per tutti (la bancarotta dello Stato), l’accoglienza per i migranti, l’anti-americanismo domina il dibattito pubblico, le opinioni che non si allineano al politicamente corretto sono silenziate. Le elezioni si vincono e perdono su questo terreno.
Il voto a Genova e in altre città ha confermato le antiche difficoltà del centrodestra nel voto comunale: trovare il candidato giusto, superare le divisioni locali, organizzare una rete di alleanze, partire con i tempi giusti nella campagna. Tra due settimane avremo un vero banco di prova, quello dei referendum, sarà lo spartiacque della legislatura: se la sinistra centra il quorum può sperare nella «remuntada»; se fallisce, si apre una crisi di identità con una seduta di autocoscienza infinita. Alle porte dell’estate, oggi cantano vittoria, ma sono già all’ultima spiaggia.