C’è un’atmosfera cupa, lo scrivo da tempo e penso che stia peggiorando. Più la legislatura s’avvia alla fase finale, più gli estremisti escono allo scoperto, più appare possibile un’altra vittoria del centrodestra alle prossime elezioni politiche, più i toni sono macabri.
Giorgia Meloni è cresciuta con i racconti di chi ha visto gli anni di piombo, il terrorismo, ha esperienza politica e sesto senso, per questo quando dice che «non è nemmeno rabbia. È qualcosa di più oscuro, che racconta un clima malato, un odio ideologico, in cui tutto sembra lecito, anche augurare la morte a un figlio per colpire un genitore», va ascoltata, perché c’è qualcosa di sinistro, una presenza visibile ma ancora inafferrabile che si sta facendo avanti, si augura la morte dei bambini, la fine violenta dei figli di chi serve lo Stato.
È una presenza sulfurea, la sentiamo strisciare e nello stesso tempo è nascosta nella moltitudine, si fa scudo nell’essere confusa nella massa, ma le parole, gli slogan sono chiari: non gli basta sconfiggere l’avversario politico, lo vogliono eliminare, lo classificano come il “nemico” da abbattere, desiderano la sofferenza di chi ha un’idea politica diversa. È un’accozzaglia pazza, pericolosa, non mi preoccupano i leoni da tastiera che sono agnellini frustrati nella vita reale (ieri su X una simpatica signora mi ha dato del “bastardo” augurandomi di «morire di stenti»), ma quelli che fanno propaganda brandendo come una clava la parola «lotta», i nuovi predicatori dello scontro sociale, le brigate di fanatici che vedono il fascismo al potere e chiamano alla resistenza. Prima o poi, troveranno il matto che spara e forse molto altro, perché qualcosa sta bollendo in pentola.
Le cose più nefaste accadono prima di tutto con la parola, la propaganda, il pugnale del linguaggio. Gli anni di piombo cominciarono nel contesto della Guerra Fredda, con i partiti comunisti europei ancora pieni di voti ma avviati alla bancarotta ideologica, la teoria del conflitto finì per entrare nella clandestinità della lotta armata. Tutto ebbe inizio con i volantini nelle fabbriche, i cenacoli dell’insurrezione nelle università, i manifesti farneticanti che erano parte di un piano di destabilizzazione dell’Italia che poi culminò con l’attacco delle Brigate Rosse al cuore dello Stato. Ieri non può essere oggi, ma la storia ama ripetersi in altre forme e non bisogna mai dimenticarlo.
L’ossessione sul ritorno del fascismo in Italia è un caso grave, un processo morboso che mina la politica, avvelena il dibattito e trova una linfa potente nella distorsione del racconto di quanto accade nello scenario internazionale, nello shock geopolitico, fino a sfociare nella riaccensione di quattro grandi roghi ideologici: l’antimilitarismo, l’antisionismo, l’antisemitismo e l’antiamericanismo. È quella brodaglia che vediamo esondare nelle piazze d’Occidente, era presente ieri a Roma, in un corteo dove sventolavano le bandiere palestinesi e spiccava l’assenza di ogni condanna ai tagliagole di Hamas, con il processo in piazza a Israele e il silenzio sul terrorismo islamista, l’assalto a Donald Trump i cui sforzi per cercare la pace in Ucraina e Medio Oriente vengono sepolti dal ritorno dell’urlo «yankee go home».
A questo sabba partecipano gli intellettuali con l’indice sempre puntato dalla parte sbagliata, i professionisti del «ma anche» che non vogliono assumersi la responsabilità di parlare chiaro, i chierici della “disinformatia” che dopo aver perso la partita del Novecento sperano di vincere quella del nuovo millennio. In nome di cosa? Non si sa, parlano di un mondo migliore e dimenticano chi ha scannato gli ebrei il 7 ottobre, predicano la pace ma scordano che l’abbiamo conquistata con le armi, attaccano il Parlamento, sono contro le maggioranze, impediscono ai giornalisti conservatori di parlare in pubblico, applaudono il pestaggio della polizia, parlano di “Stato di paura” mentre lasciano la loro firma spettrale in cronaca, quella dei nemici della democrazia.
Ps: dopo aver scritto questo pezzo mi sono ritrovato a Un Alieno in Patria, il programma di Rai 3 condotto da Peter Gomez e Manuela Moreno, con nientemeno che Alessandro Di Battista, noto politologo, già eroe delle piazze grilline. Lo scienziato è riuscito ad affermare che «Israele non è una democrazia». Passo e chiudo, la dipingeva giusta Goya: il sonno della ragione genera mostri.