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Quorum ai referendum? Fu Togliatti a volerlo

Fu proprio il parlamentarismo del partito comunista che portò di fatto, politicamente e culturalmente, al quorum introdotto nell’articolo 75 per la validità di un referendum abrogativo di una legge
di Francesco Damato mercoledì 4 giugno 2025

3' di lettura

Oltre all’odio c’è dell’ignoranza nella campagna politica e mediatica contro Giorgia Meloni, accusata ora di “furbizia”, nel migliore dei casi, e di “vergogna”, nel peggiore, per avere annunciato che domenica o lunedì prossimo si presenterà alla sua sezione elettorale per non ritirare, con la visibilità del suo ruolo, le schede dei referendum abrogativi su lavoro e cittadinanza. Cioè per esercitare il suo diritto di astenersi. Che non si è arrogata, come parrebbe da certi attacchi, ma è scritto nell’articolo 75 della Costituzione in vigore dal 1948. «La proposta soggetta a referendum» dice questo benedetto articolo «è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi».

La maggioranza, ripeto, degli aventi diritto. Che come ogni dritto si può esercitare o no. Negli attacchi alla Meloni per la scelta legittima dell’astensione c’è ignoranza sia di una norma costituzionale sia dell’istituto del referendum abrogativo. Che fu disciplinato con apposita legge 22 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione perché non aveva mai scaldato i cuori, diciamo così, del partito comunista.
Che Palmiro Togliatti, non il nonno o bisnonno della Meloni, fra i cosiddetti padri costituenti, non aveva condiviso per la cultura “parlamentarista” che vantava. Cioè per la prevalenza che dava al Parlamento. Dove non a caso, in particolare alla Camera, egli poi preferì sempre aggiungere o accoppiare la carica di capogruppo a quella di segretario del partito.


Fu proprio il parlamentarismo del partito comunista che portò di fatto, politicamente e culturalmente, al quorum introdotto nell’articolo 75 per la validità di un referendum abrogativo di una legge, o parte di essa, in vigore per essere stata a suo tempo approvata dalle Camere. Un quorum non richiesto per nessun altro tipo di elezioni: dalle politiche alle amministrative. E ai referendum cosiddetti confermativi di modifiche alla Costituzione. Non avrò l’autorità di ricordare tutto questo ai costituzionalisti che, tra dichiarazioni, articoli, interviste, da casa, ufficio o salotto televisivo di turno attaccano la Meloni ma avrò la conoscenza sufficiente di un giornalista che ha vissuto l’esperienza del referendum abrogativo, rimasto sulla carta per più di vent’anni, tanto era stato concepito con sofferenza dai costituenti. I comunisti, certo, poi si convertirono all’applicazione dell’articolo 75 della Costituzione, reclamata e ottenuta dai democristiani quando divennero minoranza in Parlamento sulla introduzione del divorzio. E maturarono una volontà di rivincita referendaria, riconosciuta loro dagli alleati laici di governo, destinata però alla storica sconfitta del 1974. Quando col tappo della bottiglia di champagne della famosa vignetta di Giorgio Forattini saltò in aria non solo l’allora segretario della Dc Amintore Fanfani ma soprattutto il ruolo centrale del suo partito. Che da quel momento imboccò la strada lungo la quale non dispose più da sola della guida del governo, per esempio.

Un’avventura analoga sul fronte dell’opposizione capitò al Pci , sotto la guida di Enrico Berlinguer, imponendo di fatto una decina d’anni dopo alla Cgil di Luciano Lama di promuovere un referendum abrogativo dei tagli anti-inflazionistici alla scala mobile dei salari, dopo averne inutilmente contestato il percorso parlamentare. E fatto indossare dall’allora presidente socialista del Consiglio, sempre nelle vignette di Forattini, gli stivali e la camicia nera di Mussolini. Il Pci rimediò l’anno dopo, nel 1985, quando già Berlinguer era morto, una batosta forse anche peggiore della Dc col divorzio. O comunque analoga.

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