Anche quest’anno molte feste dell’Unità chiudono per mancanza di volontari. Cosa succede?
«Da incorreggibile ottimista voglio vedere anche la metà piena del bicchiere, il fatto che continuano a vivere migliaia di feste piccole, medie e grandi. Solo nel fine settimana ne ho frequentate due, a Modena e Milano e quella milanese in particolare era interamente gestita da un gruppo di giovani. Detto ciò, vedo il problema. Negli anni si è alzata l’età media dei volontari e probabilmente è giusto rinnovare la formula, anche se quella combinazione di politica e intrattenimento consente ancora a tante persone una serata di svago, e tutto ciò nonostante televisione e social». Gianni Cuperlo, deputato del Pd, mente critica e intellettualmente onesta, è stato, tra l’altro, l’ultimo segretario della Fgci.
È cambiata la militanza osi è allentato il senso di appartenenza?
«È cambiato tutto, non solo la militanza. Le vecchie sezioni di partito, oggi le chiamiamo circoli, fanno i conti coni costi di una politica che si è privata di ogni forma di finanziamento pubblico. Ma alzare le serrande di una sede vuol dire pagare le bollette e non sempre si si riesce. Io continuo a credere che la parola militanza sia un termine sano della democrazia, ma capisco che bisogna ripensare l’impegno in un partito e il suo legame con le domande, i bisogni, che i cittadini esprimono. I circoli debbono diventare sempre più luoghi dove si discute, ma dove offrire anche spazi ad associazioni e movimenti, dove rispondere con un’offerta di servizi agli interessi della comunità».
È anche cambiata la Festa dell’Unità rispetto a quelle di 30 anni fa.
«Quello era un partito che contava ancora centinaia di migliaia di iscritti, ma erano diverse anche le forme della partecipazione, quello che lei chiamava un senso di appartenenza. Non dico fosse in tutto un partito migliore, ad esempio, in quella militanza respiravi una fedeltà ai vertici che per fortuna ha lasciato spazio a un impegno più critico. Il punto è che se chiedi alle persone di sacrificare una parte del loro tempo è perché offri qualcosa che un talk serale non offrirà mai ed è la consapevolezza di sentirsi visti, ascoltati, coinvolti. La politica non si fa da soli davanti a una tastiera o a uno schermo. È una grande azione collettiva che deve sempre incarnare un senso di speranza».
Che ricordi ha delle sue prime feste?
«Nel caso mio sono state prima di tutto una palestra di umanità. Vedere donne e uomini delle più diverse professioni, età, estrazione sociale, rubare giorni alle ferie per dare una mano, trasmetteva una passione che andava oltre la semplice militanza. Era davvero un’idea della politica poco incline ad ambizioni personali e carriere».
Perché non è più così?
«L’errore è stato cedere al modello di un partito fondato sui soli eletti. Si è ridotto lo spazio per chi dentro le istituzioni non vive, con la conseguenza di un ritorno a un accesso patrimoniale alle cariche elettive. Quanto costa oggi essere eletto in un consiglio comunale, regionale o nel Parlamento italiano o europeo? La politica è divenuta uno dei fattori residui della mobilità sociale e come tale tende a trasformare una vocazione in un mestiere».