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Mengoni, Zucchero e gli altri: se va di moda odiare Israele

Ormai non c’è concerto senza sproloqui su “genocidio”, “Free Gaza” e attacchi allo Stato ebraico. In Inghilterra la folla di Glastonbury inneggia alla morte dei soldati di Netanyahu
di Giovanni Sallusti lunedì 30 giugno 2025

4' di lettura

C’era una voltala canzone d’autore. Ideologica, viziata da pedagogismo spinto, gramscianamente “organica”. La quale aveva un presupposto, per quanto miscelato con quanto sopra: l’argomentazione. Tutta roba irrimediabilmente retrò, sostituita dalla sua variante a misura social, che potremmo chiamare il rutto d’autore. Parole pregnanti destoricizzate, suoni che divorziano dai significati (è il caso di “genocidio” utilizzato ad capocchiam), la politica ruminata in slogan e digerita sotto forma di hashtag (#FreePalestine, che è così bello e replicabile, non sottintendesse la sparizione degli ebrei), Israele ipostatizzato in un’entità maligna che garantisce sold out ai concerti e applausi scroscianti.

Ormai, è un’operazione di marketing collettivo, che ha i suoi riti e i suoi feticci. Su tutti, sempre e acriticamente, la bandiera palestinese. Che oggi significa anzitutto la bandiera delle squadracce nazislamiche di Hamas, ma questo non ha turbato Elodie mentre un paio di settimane la ostentava a San Siro in completo ultrasexy che difficilmente i galantuomini coranici le avrebbero concesso, né ha turbato in questi giorni Marco Mengoni. Il cantante ha indossato il vessillo durante un’esibizione al Maradona di Napoli, sfornando il compitino sermoneggiante con una spruzzata di trivialità, per sentirsi più maudit di quel che è: «Ce n’è abbastanza nel mio spettacolo di stop a questa roba orribile che l’uomo continua a fare. Perché? Continuiamo a ripeterlo che magari arriva anche a quelle teste di cazzo. La parolaccia ogni tanto ci vuole. Mi scuso, ma è l’unico termine che si usa per chi massacra altre persone». A rigore, quindi, «teste di cazzo», per dirla in mengonese, andrebbe riferito anzitutto agli esecutori e agli organizzatori del bestiale pogrom antiebraico, su su fino all’ayatollah Khamenei, ma è logica formale, non fa vendere.

Anche i Pinguini Tattici Nucleari in tour per l’Italia proiettano sul loro megaschermo la bandiera palestinese, minimo sforzo massima resa. Adelmo Fornaciari, in arte Zucchero, l’ha presa alla larga, o meglio all’origine: «In questo mondo qui siamo messi male. Abbiamo a che fare con 5-6 spermatozoi venuti male.
Come fai a non farti girare i cogl... verso quelli che ammazzano i bambini? Non tocchiamo questo tasto, sarà retorica ma qualcosa dovevo dire. Si stanno massacrando, si fanno i dispetti tra di loro». Viene quasi da rimpiangere quando a gauche imperversava il mito della complessità: adesso te la cavi con qualche allusione all’organo riproduttore maschile, turpiloquio a caso a supporto, evocazione più o meno esplicita dell’ebreo “massacratore”, con incasso immediato dell’applauso terzomondista e (nella migliore delle ipotesi) anti-israeliano.

È un conformismo talmente automatizzato, quasi un balzello all’entrata per rimanere compiutamente parte dello star system nostrano (ammesso qualcosa del genere esista), che infine ci cade anche chi aveva dapprima intonato fuori dal coro. Caso di scuola Vasco Rossi, che a marzo 2024 aveva spiazzato tutti: «Free Palestine è un bello slogan, da anime belle; ma se implica la distruzione dello Stato di Israele, io mi ribello». La ribellione è evaporata sul palco dell’Olimpico a Roma, dove è andata in scena l’adesione di Vasco al dogma corrente: «Basta con la strage degli innocenti a Gaza. Basta con tutte le stragi di tutte le guerre che sono fatte solo per massacrare la gente civile e far soffrire le persone comuni». Genericità astrattamente condivisibili, ma perdendo tutte le distinzioni che pure Rossi aveva dimostrato di possedere (i gerarchi di Hamas che ricercano scientemente il “massacro” della loro “gente civile”, Israele che reagisce al pogrom, la piovra del Terrore antisemita che infesta da decenni il Medio Oriente) si perde la trama della Storia e si precipita nello spot progressista, per cui Vasco finisce per sovrapporsi a un Ghali qualunque. Il rapper di origini tunisine è salito sul palco dell’evento romano “Non in mio nome”, in «supporto di Gaza e del popolo palestinese», e ha diffuso il suo non irrinunciabile verbo: «In un momento in cui sta accadendo una delle più grandi ingiustizie della storia, vedere una piazza così attiva mi riempie il cuore di speranza davvero». Dopo tormentata riflessione, l’originalissima idea cui è approdato è «ripartire dalla cultura e dall’educazione». Esempio di operazione culturale per come la intende Ghali: urlare «stop al genocidio!» a caso al Festival di Sanremo, facendo prendere fuoco a intere biblioteche di storia contemporanea (in particolare nelle sezioni “Shoah”). Il prossimo passo che ci attende è forse quello già avvistato Oltremanica, al Festival di Glastonbury, dove il duo punk Bob Vylan ha lanciato il coro «Morte all’esercito israeliano!», con la folla festante che esultava e ripeteva. È un’unica canzone ormai, e pare provenire direttamente dalle birrerie di Monaco degli anni Trenta. È una canzone impegnata, certamente: a farla finita con gli ebrei.

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