Ma quindi è colpa dei grillini o il Pd ha fatto tutto da sé? No, non mi riferisco solo alla sorte di Beppe Sala, che oggi – in un senso o nell’altro – sarà forse più chiara. Ma, più in generale, alla torsione della sinistra verso un mix di giustizialismo e pauperismo, verso un anti -capitalismo ormai sfacciato, verso una criminalizzazione della ricchezza molto più pronunciata rispetto alla stessa (proclamata più che praticata) lotta alla povertà. Diceva ai suoi compagni Olof Palme: «Non dobbiamo far piangere i ricchi, ma far sorridere i poveri». Ed era un socialdemocratico, eppure rispetto al duo Conte & Schlein pare quasi un liberista della scuola di Chicago. Tra piddini e grillini, oggi, la gara è in una sola direzione, tutta verso l’ultrasinistra: se potessero, i grattacieli milanesi li abbatterebbero.
E non serve scomodare Freud per spiegare questa pulsione distruttiva. E allora rispondere alla domanda iniziale è difficile: prendi i giornali di ieri e hai argomenti per l’una e l’altra tesi. Sul Corriere della Sera, ecco un’intervistona al grillino Stefano Patuanelli, in modalità Rifondazione comunista (del resto lui stesso, prima di entrare in politica, confessò di aver votato Bertinotti), e ti pare che l’opa culturale dei pentastellati sia evidente. Chiede le dimissioni di Sala sulla basa della “questione etica”, anche se non mette a rischio la collaborazione con il Pd. In fondo, è l’applicazione su Milano di uno schema nazionale che conosciamo già: Conte avrà pure la metà dei voti della Schlein, ma è lui che dà il tono alla musica sul Medio Oriente, sull’Ucraina, sull’economia, perfino a favore di Francesca Alba nese. Poi passi su Repubblica e leggi le dichiarazioni di Pierfrancesco Majorino, già assessore al Welfare e ora candidato sindaco in pectore per il Pd, e capisci che la sinistra il grosso del lavoro in direzione massimalista l’ha già fatto per conto suo. Apparentemente l’uomo del Pd dice altro da Patuanelli, nel senso che Majorino vorrebbe che Sala rimanesse al suo posto. Ma già fa sentire il pugno del partito, chiedendo «scelte coraggiose» su «emergenza abitativa e questione urbanistica».
Tradotto: la caricatura di un piano alla sovietica. Inutile girarci intorno: un pezzo enorme dei progressisti sogna una svolta verso sinistra. E così può andar bene liquidare Sala, ma va anche meglio – per preparare le elezioni fra due anni – commissariarlo politicamente e piegarlo alle priorità di un Pd già autonomamente gril linizzato. Aveva capito tutto (all’inizio del 2021) un osservatore acuto e disincantato come Lodovico Festa, che pubblicò allora (per Guerini e Associati) una gemma (Addio Milano bella) incastonata in una sorta di trilogia gialla (dopo La provvidenza rossa e La confusione morale). Anche qui, come nei due casi precedenti, il protagonista del romanzo è l’ingegner Cavenaghi: nella narrazione di Festa, un reduce della crisi del vecchio Pci (di cui era responsabile lombardo dei probiviri). Il libro è ambientato nel 1993, e Cavenaghi si è ormai disimpegnato dal partito e trasferito in Svizzera. Ma i vecchi compagni milanesi, ora divenuti Pds (il partito della quercia di Cip e Ciop, annota perfido l’autore), si trovano in un grosso guaio, un clamoroso furto dai risvolti inquietanti, peraltro nel pieno della tempesta di Mani Pulite, e temono il peggio. Per questo, richiamano Cavenaghi e gli affidano una delicatissima indagine riservata.
Dentro questa cornice giallistica, e con il pretesto (è la copertura per la sua inchiesta top secret) di dover redigere un rapporto sulla società milanese, Cavenaghi viaggia attraverso tutta la Milano che conta: nelle stanze di un partito ormai disarticolato e smarrito, e nella cosiddetta società civile, tra accademici, sindacalisti, borghesia industriale, mondo cattolico, intellettuali, perfino le inevitabili signore dei salotti. Il quadro che si presenta davanti agli occhi di Cavenaghi è devastante: in quel 1993, un cedimento generalizzato al giustizialismo, e la facilità impressionante con cui – chi per superficialità, chi per interesse – tutta l’Italia “perbene” sembra accettare di buon grado (anzi, festeggiare!) l’azione “salvifica” dei pm. Attenzione, però, e qui si arriva all’oggi: Festa non sta lì a farci un lagnoso memoriale sulla malagiustizia. Il romanzo guarda oltre, e questo metterà di malumore anche pezzi di establishment odierno. Il protagonista comprende che, attraverso la scorciatoia giustizialista, si compiranno disastri ancora più gravi e duraturi: un affidarsi miracolistico al vincolo esterno e al “sogno” europeo (un incubo); la fiducia eccessiva in privatizzazioni che non hanno visione liberale, ma più che altro la prospettiva della svendita; la leggerezza nell’accettare l’idea che ogni soggettività politica debba lasciare il passo ai “competenti”. Dunque, il cuore del romanzo è storico e politico: contro l’illusione di un esito controllato e gestibile della stagione ’92-’93, e contro una deriva (di cui tuttora paghiamo il conto) che, avendo espulso le idee dall’arena pubblica, ha lasciato la lotta politica prigioniera dell’arma moralistica. Affarismo e giustizialismo, “peccati” tecnocratici e “penitenze” cattocomuniste.
La frase chiave è a pagina 62: «Il ’92-’93 è come una Caporetto e come l’8 settembre, ma senza un Piave e una Resistenza alle viste». E allora si capisce bene che il romanzo e l’autore parlano a noi e di noi, della Milano e dell’Italia di oggi, non solo di quella di trent’anni fa. Sono gli appunti (gli sarebbero utilissimi) che Beppe Sala potrebbe leggere prima di pronunciare il suo intervento di oggi. Lo farà? C’è da dubitarne.