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Chi usa la giustizia per fare politica finisce divorato

di Mario Sechi mercoledì 23 luglio 2025

3' di lettura

Cari compagni, temo siate rimasti indietro con le buone letture, riporto alla vostra attenzione Dante e la Divina Commedia, Antonio Gramsci e i Quaderni del carcere, con le “noterelle sulla politica del Machiavelli”. Nel giro di pochi giorni i procuratori della Repubblica hanno impallinato prima il sindaco di Milano, Beppe Sala, poi l’ex sindaco di Pesaro, Matteo Ricci. Il primo ha la giunta azzoppata e non sappiamo se mai si riprenderà, il secondo è casualmente candidato nelle Marche e i guai pesaresi (ammesso che esistano) lo hanno ridotto in stampelle.

Dante rappresenta la teoria del contrappasso al quale il Partito Democratico è sottoposto dalle forze della storia: quando invochi la ghigliottina e le manette, usi la giustizia come strumento politico per eliminare l’avversario, alla fine le toghe mangiano anche te, è il destino di tutte le rivoluzioni (terzo libro consigliato, La morte di Danton di Georg Büchner, un altro capolavoro). Gramsci, nella sua lezione sul segretario fiorentino, ha lasciato frasi illuminanti sullo Stato di diritto e la giustizia, per Sala e per Ricci mi pare calzi a pennello questo passaggio: «Nella concezione del diritto dovrebbero essere incorporate anche le attività “premiatrici” di individui, di gruppi etc.; si premia l’attività lodevole e meritoria come si punisce l’attività criminale (e si punisce in modo originali facendo intervenire l’opinione pubblica come “sanzionatrice”». Avete capito, cari compagni, cosa ricordava il fondatore del Partito Comunista Italiano? Sosteneva - i virgolettati sono sempre suoi - che «il diritto penale si è ampliato, ha assunto forme originali» fino a integrare «una specie di “gogna della vertù”».

Che cosa vi sta dicendo Gramsci, cari post-comunisti senza la cultura dei vecchi comunisti? Che il diritto può essere mostruoso, che va maneggiato con cura, non può essere un fucile puntato sull’avversario politico né un potere talmente al di sopra di ogni cosa da diventare contropotere e dunque governo dei giudici e infine dittatura delle toghe. Nel giorno in cui il Parlamento vara la riforma della separazione della carriere dei magistrati (siamo solo l’inizio, a mio parere il pm andrebbe sottoposto al controllo dell’esecutivo come avviene in tutti i paesi civili) e amplia le carceri (amplia, non apre), le vicende di Sala e Ricci sono un memento perché la sinistra a forza di opporsi a ogni riforma della giustizia, arroccarsi a difendere uno status quo insostenibile, si è consegnata al suo carnefice e gli esempi di Milano e di Pesaro parlano da soli, non c’è bisogno di fare sociologia del diritto o disegnare una nuova teoria dello Stato. Mi stupisce che Dario Franceschini, uomo colto e politicamente arguto, non abbia fatto in Parlamento un discorso degno della sua austera barba e della sua intelligenza, ha preferito anch’egli giocare con i calambour, parlando di “Papeete della premier” per respingere la riforma della giustizia. Franceschini ha perso una grande occasione, non ha colto il tempo giusto che la storia gli aveva offerto per far sterzare all’ultimo minuto il Pd e salvarlo dall’impatto con il muro di cemento armato delle procure.

Poteva farlo solo lui questo discorso, perché non viene dalle Frattocchie, ma dalla storia della Dc, che proprio questa giustizia ha colpito e affondato, chiudendo la storia della Balena Bianca. Sala a Milano è zombificato dalla magistratura e dall’ipocrisia di questa sinistra massimalista, incapace di riconoscere che la magistratura ha dei limiti, che esiste un primato della politica, che governare significa far emergere i legittimi interessi, metterli a confronto e poi prendere decisioni. Quanto a Ricci, assiduo frequentatore dei talk show, penso che ieri si sia accorto della differenza che passa tra le chiacchiere dell’opposizione e la realtà di un’Italia dove il cortocircuito tra politica e giustizia non è mai stato riparato e oggi sta fulminando la classe dirigente del Pd. Dante chiude il cerchio, spero per tutti che non sia quello dei (con)dannati.

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