La prossima legge di Bilancio del governo Meloni sarà la prima tappa del giro finale della legislatura. Giancarlo Giorgetti, ospite ieri alla festa dell’Udc, ha risposto alle mie domande con la sua consueta prudenza ma - al netto delle incognite dello scenario internazionale, che finora è stato ben affrontato dal governo - è apparso chiaro che il ministro dell’Economia sta accelerando sulla realizzazione del programma del centrodestra. Giorgetti ha sempre detto che la legislatura non è una gara dei cento metri, ma una maratona, i risultati di questa strategia della “lunga marcia” si vedono e il quadro sarà più chiaro «tra due settimane». Il governo parte con un dato di grande concretezza: non ci sarà una manovra correttiva, perché le previsioni di Via XX Settembre sono in linea con i dati reali dell’economia, la programmazione è stata ben calibrata e le risorse a disposizione saranno sufficienti per finanziare le riforme che contano.
La parte fiscale sarà quella più cospicua: rimodulazione del secondo scaglione dell’Irpef, rifinanziamento del cuneo, rottamazione. La legge di Bilancio è stata preceduta da una gestione da masterclass dello “stato d’eccezione”, gli ultimi tre anni sono stati segnati da molteplici shock geopolitici (uscita dall’emergenza pandemica, ingresso in una dimensione di economia di guerra, de-globalizzazione, regionalizzazione delle rotte commerciali e tensioni sui dazi con gli Stati Uniti) che si è tradotto in stress finanziario per molti Paesi considerati virtuosi. Fino a ieri. L’esempio della Francia è sotto gli occhi di tutti, a Parigi non sono stati in grado di tenere sotto controllo la spesa, la Quinta Repubblica è inceppata, il consenso di Emmanuel Macron è ai minimi storici, sul piano della credibilità dei conti i francesi hanno pagato gli errori (causati anche da “hybris”, dalla supponenza di una classe dirigente che non ha esperienza di “crisi”) con il declassamento del rating sovrano da parte di Fitch. La sinistra italiana che sfoggia la “Legion d’onore” tenga bene a mente questo numero: 44 miliardi, sono i tagli che il primo ministro francese Bayrou aveva presentato all’Assemblea nazionale. È stato sfiduciato e al suo posto Macron ha nominato il signor Lecornu.
Al contrario, il governo Meloni ha gestito bene la parabola dell’economia, Giorgetti ha mostrato la rara dote di saper leggere la mappa del “nuovo mondo” (compreso l’arrivo delle politiche economiche del “game changer”, Donald Trump), l’Italia è in uscita dalla procedura Ue di deficit eccessivo e il prossimo 19 settembre attende il giudizio di Fitch con fiducia perché l’agenzia di rating «non può non notare quello che tutti i mercati stanno notando». Il lavoro sull’equilibrio della finanza pubblica è stato eccezionale: lo spread tra i titoli di Stato italiani e francesi si è ristretto a pochi punti (traduzione: gli investitori preferiscono i Btp agli Oat, lo Stato italiano è considerato più affidabile di quello francese) e i benefici per il sistema di famiglie e imprese sono grandi: dal 2022 al 2025 l’Italia ha consolidato la sua economia, lo spread con i Bund tedeschi che a settembre - prima dell’insediamento di Giorgetti al ministero dell’Economia- era a quota 251 punti, ha toccato i 71 punti base il 15 agosto 2025 (alla chiusura del 12 settembre è pari a 83 punti). Il 27 agosto anche il differenziale tra Oat francesi e Btp italiani si è assottigliato al minimo storico a circa 5,5 punti base. Sono numeri che confermano che la rotta è giusta, mentre il cantiere della manovra è aperto e punta a una accelerazione su temi che fanno parte del programma del centrodestra: taglio delle tasse per il ceto medio, risorse per le famiglie numerose, nuovo patto tra contribuente e Fisco. Matteo Salvini ieri ha aggiunto un elemento che a mio avviso è di grande rilevanza: la discussione nella maggioranza sulla revisione delle regole del reddito Isee, «perché tutti i bonus, il bonus scuola, il bonus affitto, il bonus bebè, vanno troppo spesso agli stessi».
È una questione di equità e di un sistema sociale che negli anni è cambiato profondamente. Sono le tessere di un mosaico che si comporrà nelle prossime settimane con la presentazione in Parlamento il 2 ottobre del Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp) che avrà alcune indicazioni sulle misure della legge di Bilancio. Quello che ho provato a sintetizzare è un cantiere aperto, sono i lavori in corso del centrodestra che misurano la siderale differenza con i “livori in corso” dell’opposizione. Qual è il contributo della sinistra alle riforme economiche? I suoi leader dicono che va tutto male (e automaticamente non sono credibili), rispetto al vecchio Pci (che quando era necessario, nell’interesse dei suoi elettori, sapeva anche co-governare stando all’opposizione) sembrano usciti dall’asilo infantile, tentano di portar via la palla (che non beccano mai), hanno puntato sul populismo economico. Sono in campagna elettorale nelle Regioni dove si vota e il loro programma di spesa è la via più veloce per scassare i conti e seminare miseria. Con una battuta fulminante, un democristiano di lungo corso, Gianfranco Rotondi, ha sintetizzato così il rischio che corre il Mezzogiorno: «Se vince Fico, servirà un piano Mattei per la Campania».
Senza aver imparato la dura lezione del bancomat del reddito di cittadinanza e del superbonus pagato dai lavoratori, hanno scelto la via della bancarotta. È la divisione tra due mondi: il centrodestra punta su tre carte, ceto medio, produttori, famiglie, mentre la sinistra lo declina in ricchi da tassare (la patrimoniale!), evasori da punire per sempre e più immigrati per tutti. I nostri progressisti somigliano a quelli descritti da Winston Churchill: «I socialisti sono come Cristoforo Colombo: partono senza sapere dove vanno. Quando arrivano non sanno dove sono. Tutto questo con i soldi degli altri». E non scoprono neppure l’America.