Uno dopo l’altro, tutti i totem progressisti degli ultimi 30 anni stanno cadendo. È la fine di un ciclo politico e l’apertura di una nuova fase. Le due figure chiave di questo cambio d’epoca sono Donald Trump negli Stati Uniti e Giorgia Meloni in Europa. L’America è la potenza globale che sta curvando lo spazio geopolitico, imprimendo una nuova direzione alla storia; l’Italia è la nazione europea che ha colto il cambio di passo, ha interpretato al meglio quel “mondo nuovo” che chiama l’Occidente a raccogliere la sfida della contemporaneità. Meloni esercita la leadership di una “forza tranquilla” che pensa e agisce con pragmatismo, senza avventurismi, consapevole dell’inscindibile legame dell’asse euro -atlantico, dialogando con l’Africa e il Medio Oriente, costruendo ponti. È un ruolo prezioso che all’estero apprezzano (la rassegna stampa è a disposizione) e che in Italia non vedono solo un’opposizione da asilo infantile e un giornalismo con il libretto rosso. È la sintonia tra Washington e Roma che in questi mesi ha tenuto l’Europa agganciata al treno americano quando si è aperta la partita sui dazi, un nuovo scenario del commercio mondiale.
È Meloni ad aver dato al cancelliere tedesco Merz la mano che serviva per non scivolare nella palude ideologica della sinistra sulla guerra a Gaza e finire nella pericolosa operazione di Macron e Starmer. Se l’Italia avesse dato corda alla demagogia sul riconoscimento della Palestina, Merz avrebbe ceduto di schianto. Meloni a New York ha giocato d’anticipo una carta spiazzante, ha sfidato l’opposizione annunciando una mozione parlamentare che apre alla soluzione dei due Stati (cosa che la premier ha sempre affermato anche nei contatti diplomatici con Israele), ma vincolandola al rilascio di tutti gli ostaggi e alla rinuncia da parte di Hamas di qualsiasi ruolo politico in Palestina. È una condizione che le sinistre non possono rifiutare senza perdere la faccia: o votano la mozione insieme con la maggioranza (e fanno una scelta istituzionale corretta) o dimostrano platealmente che la loro posizione su Gaza è solo un cinico calcolo politico, propaganda. La mossa di Meloni è efficace soprattutto perché costringe il Pd a misurarsi non nelle piazze (con i risultati disastrosi che abbiamo visto), ma in Parlamento, il luogo dove i partiti mettono in campo la loro capacità di fare politica. Meloni chiama l’opposizione ad abbandonare la protesta e a declinare una proposta.
Per il Pd si tratta di un passaggio decisivo, è lo spartiacque tra il dire e il fare, l’essere forza alternativa di governo o il non-essere destinato a restare partito d’opposizione. Sul piano della politica europea, Meloni allarga lo spazio di manovra anche per la Germania e stoppa la fuga in avanti di Macron, campione mondiale di corse solitarie che finiscono contro un muro. Meloni ha ragionato tenendo insieme il quadro interno e quello esterno, Roma e Bruxelles, con lo sguardo rivolto agli Stati Uniti di Trump, il game changer, la forza che ha cambiato le regole del gioco e sullo Stato Palestinese va in tandem con Benjamin Netanyahu. C’è molto filo da tessere, ma la trama è ancora tutta da scoprire. L’intervento fluviale del Presidente americano all’Assemblea generale dell’Onu è stato un memento, un colpo di cannone in un dormitorio. Quando ha sepolto le politiche green dicendo che «il cambiamento climatico è la più grande truffa mai perpetrata al mondo»; quando ha avvisato i naviganti diretti verso gli scogli che «l’immigrazione e le loro idee energetiche suicide saranno la morte dell’Europa occidentale»; quando ha indicato il fallimento dell’Onu in tre parole, «è stata inefficace» e ha aggiunto che «non ha mai raggiunto il suo vero potenziale» aprendo alla necessità di una profonda riforma; quando ha ricordato agli alleati la realtà della guerra in Ucraina, «le nazioni della Nato dovrebbero abbattere gli aerei russi che violano lo spazio aereo»; quando ha incontrato Zelensky e lo ha definito «un uomo coraggioso che sta combattendo con tutte le sue forze».
Trump va dritto al punto, scuote il Palazzo di Vetro, squaderna un altro racconto della contemporaneità. Mentre nel salotto progressista erano già in preda alle convulsioni, Meloni ha chiosato: «Condivido quello che dice Trump sulla migrazione, ho condiviso buona parte di quello che dice sul Green Deal e ho condiviso anche alcuni passaggi sul fatto che gli organismi multilaterali, per lavorare bene, devono recuperare e migliorare il loro ruolo in un contesto come quello nel quale ci troviamo». L’asse Stati Uniti-Italia è forte, ne avremo conferma nell’intervento di Meloni, che per Trump è un punto di riferimento, perché nella precarietà ormai cronica dei governi dell’Europa, tra le leadership traballanti, c’è la stabilità del governo di Roma. La foto della famiglia europea è un quadro in bianco e nero: Macron è un presidente in crisi nera, senza un governo credibile e con gli islamisti che bussano alla porta; Merz è un cancelliere nel limbo, prigioniero dei socialdemocratici in caduta libera; Sanchez è ingabbiato nella sua ideologia sinistra e guida uno Stato scheggiato dai secessionisti; Starmer ha i tribunali islamici in casa e gli inglesi che al pub non riconoscono il loro Paese. In mezzo, ci siamo noi, l’Italia, gli unici che con Giorgia Meloni hanno una prospettiva politica di lungo termine, una leader che può correre la maratona della longue durée, il tempo lungo della storia.