G ià affermato e autorevole storico, nonché animatore del dibattito politico-culturale del suo paese, dieci anni fa Niall Ferguson pubblicò un saggio breve e d’occasione che voleva essere una Apologia di Margaret Thatcher, l’indiscussa protagonista della politica inglese degli anni Ottanta. Il pamphlet conserva ancora oggi freschezza e immediatezza di stile. E bene fa Luiss University Press a riproporlo per la prima volta in traduzione italiana col semplice titolo di Lady, a cento anni esatti dalla nascita di colei che «salvò la Gran Bretagna», come recita il sottotitolo dell’edizione inglese (era nata nella contea del Lincolnshire il 13 ottobre 1925). Ancor più significativo era però il titolo di quel libello: Always Right, che è quasi un gioco di parole perché può significare sia «avere sempre ragione» sia «essere sempre di destra». «Per chi la combatteva – scrive Ferguson - è ancora difficilissimo ammetterlo, eppure Margaret Thatcher aveva ragione su quasi tutto. Aveva ragione a sostenere che i sindacati britannici fossero diventati troppo potenti. Aveva ragione sulla necessità di privatizzare le industrie statali. Aveva ragione sulle cause monetarie dell’inflazione. E aveva quasi sempre ragione anche in politica estera».
Quando arrivò a Downing Street, nel maggio del 1979, la Gran Bretagna era sprofondata in una crisi profonda e a prima vista irreversibile: i servizi pubblici non funzionavano, la produzione industriale e il potere d’acquisto dei cittadini erano scesi vertiginosamente, il paese era paralizzato dagli scioperi. Questa situazione era il risultato di trent’anni di dominio del laburismo e del keynesismo: una vera e propria egemonia culturale, oltre che politica, se è vero che anche i conservatori ne erano succubi e proponevano le stesse politiche che avevano portato il paese alla bancarotta. Anche coloro che avevano ben visto nello statalismo l’origine dei guai non avevano il coraggio di sfidare questa egemonia, o più propriamente le forze organizzate e il deep state che la difendevano a spada tratta.
La Thatcher, che veniva considerata una sorta di parvenu per le sue origini sociali e per la lontananza dai gruppi di potere anche del suo partito, decise a un certo punto di scendere in campo riproponendo le ricette liberiste e antistataliste, nonché l’orgoglio e l’amor patrio, che avevano fatto grande la Gran Bretagna in passato. Ricette che ai più sembravano datate, ma che ella seppe rivedere e adattare ai nuovi tempi, forte anche del lavorio intellettuale che si era svolto negli anni precedenti in ristretti ma influenti circoli intellettuali o think tank. Come ci ricorda Ferguson, la Lady di Ferro poté però vincere la sua battaglia per il potere perché portò in dote e offrì al suo paese due virtù dimenticate o assopite: il coraggio, appunto, e la speranza: «Thatcher - osserva Ferguson - adorava gli scontri» e «quando infieriva sapeva essere spietata». «In un’intervista televisiva del 1984 affermò lapidaria: “senza mettervi nei guai, non otterrete mai niente”». Thatcher parlava direttamente al suo popolo, senza intermediari, con parole semplici, e forse anche per questo non piaceva, allora come oggi, agli intellettuali. Così come non piaceva a molta sinistra, anche se fu poi il Labour negli anni Novanta a ereditare un paese che aveva riconquistato il suo appeal di Cool Britannia.
Nemmeno le femministe amavano la Thatcher, così come non amano oggi Giorgia Meloni, mostrando che la loro battaglia per l’emancipazione femminile era, ieri come oggi, strumentale all’affermazione della loro parte politica. Ferguson sottolinea infine un altro importante elemento, che ha reso impopolare la grande leader agli occhi delle élite: aveva ragione anche sull’Europa. E riporta un significativo passaggio di un noto discorso tenuto in Belgio nel 1988: «Abbiamo faticato molto per allentare l’ingerenza dello Stato in Gran Bretagna, solo per vedercela imposta di nuovo a livello europeo, da un super Stato europeo che da Bruxelles esercita il suo dominio». Come dar lor torto, anche col senno del poi?