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Se una toga parla come un politico possiamo ritenerla imparziale?

di Daniele Capezzone lunedì 27 ottobre 2025

3' di lettura

In poco più di ventiquattr’ore, dopo la sua infelice e nervosa reazione iniziale all’intervento di Marina Berlusconi, il presidente dell’Anm Cesare Parodi si è visto costretto a mettere una pezza per tentare di salvare il salvabile. E così è passato dal surreale interrogativo del giorno prima («Perché lamentarsi di una giustizia che comunque arriva a un risultato che viene condiviso?») alla più ragionevole osservazione di ieri secondo cui «qualunque vicenda giudiziaria che duri trent’anni anni è un qualcosa che un sistema civile non dovrebbe conoscere». Dunque tutto bene? Purtroppo no, e lo scriviamo senza alcun acre gusto polemico, ma con l’amarezza di chi constata un’evidenza che ancora impedisce all’Italia di diventare un paese occidentale come gli altri. Perché – ecco il punto – molti magistrati italiani si ritengono in diritto e in dovere di polemizzare a tutto campo, con qualunque interlocutore, come se fossero veri e propri soggetti politici, o – su un altro piano – come se fossero liberi pensatori, liberi commentatori, liberi opinionisti? Tutto ciò è radicalmente anomalo. Possono i magistrati avere opinioni?

Certo che sì, come ogni cittadino. E possono esprimerle? Sì, ma con la continenza e la misura richieste a chi indossa una toga. Tanto per cominciare, i magistrati non dovrebbero ammonire chili critica: stiamo parlando di funzionari dello Stato che già dispongono dell’immenso potere di limitare la libertà altrui, e che a maggior ragione dovrebbero attenersi a una speciale cautela espressiva, stando rigorosamente fuori dalla polemica politica. I magistrati, in secondo luogo, non dovrebbero appellarsi ai cittadini o rivendicare una sorta di rapporto diretto con il popolo, che tra l’altro – diversamente da quanto accade in altri ordinamenti – non li ha eletti. I magistrati, in terzo luogo, non dovrebbero – attraverso un’associazione privata quale è l’Anm – continuare a ritenersi gestori e quasi “proprietari” di un organo costituzionale come il Csm. Da questo punto di vista, è perfino riduttivo – da parte garantista – criticare le correnti, le quali sarebbero molto meno efficaci nella loro discutibile azione se non disponessero di un alveo, anzi di un castello fortificato come l’Anm.

E ancora, in quarto luogo, non tocca alle toghe svolgere funzioni proprie del Governo. E soprattutto non tocca a loro il compito né di scrivere né tanto meno di correggere le leggi: cosa che compete al Parlamento. È l’ora di archiviare questa stravaganza italiana secondo cui, partendo dall’idea che il magistrato sia “in lotta”, possa permettersi una latitudine di intervento pressoché sconfinata, invadendo poteri e attribuzioni che non gli appartengono. Intendiamoci: nessuno nega ai magistrati il diritto ad avere un loro sindacato. Lo abbiano pure, sulla base dell’articolo 39 della Costituzione. Ma non si può consentire a un’associazione privata di egemonizzare un’istituzione come il Csm, di farne un contropotere rispetto a Governo e Parlamento, e di presentarsi come un soggetto politico che si rivolge direttamente al paese, che polemizza, che ammonisce, che entra a gamba tesa su tutti i palloni.


Si dice: ma ora è alle viste un referendum costituzionale sulla riforma della giustizia. A maggior ragione, nel rispetto della fisiologia referendaria, si attivino comitati per il sì e comitati per il no.
E naturalmente anche i magistrati potranno dire la loro, ci mancherebbe. Ma se, a partire dal capo dell’Anm, passando per i vertici di numerose procure, si dovesse registrare una “discesa in campo” tutta politica di pezzi della magistratura, il risultato finale (ben al di là dell’esito referendario che potrebbe vederli numericamente perdenti) sarà quello di mostrare plasticamente ai cittadini i magistrati non come soggetti neutri e terzi – quali dovrebbero essere – ma come soggetti politici di parte. Con una novità devastante (per loro). Se per molti anni questo genere di scorribande erano purtroppo caratterizzate da un certo grado (prima altissimo, poi semplicemente alto) di consenso popolare, adesso la situazione si è rovesciata. Un numero elevatissimo di cittadini ha perfettamente compreso l’anomalia legata alla politicità dell’azione e delle parole della magistratura associata. E quel consenso è svanito. E soprattutto: dopo che (a partire dal vertice dell’Anm) dei magistrati si espongono politicamente in questo modo, dichiarando tutti i giorni, rispondendo a destra e a manca (anzi, solo a destra), quale cittadino – trovandosi di fronte a un pm o a un giudice che si sia ipoteticamente comportato così – potrà considerarlo imparziale e credibile? Suvvia. È questo clamoroso autogol che, dopo oltre trent’anni, potrebbe porre fine al toga-party.

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