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"Per la malattia di Alzheimerpuntiamo sulla prevenzione"

Arrestare la patologia sul nascere si configura sempre di più come la strada più percorribile per contrastare questa condizione che ad oggi colpisce 6 milioni di italiani e le loro famiglie

Maria Rita Montebelli
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Occorre un netto cambio di direzione per contrastare la malattia di Alzheimer: durante lo scorso anno sono stati infatti interrotti alcuni studi promettenti su nuove terapie per questa patologia, perché non rilevavano una sufficiente efficacia. Questo ha portato alcune case farmaceutiche a disinvestire nella ricerca in questo campo ed ha comprensibilmente indotto sconcerto tra i familiari di pazienti e nella stessa comunità scientifica. “Dopo il fallimento delle terapie somministrate nella fase di demenza conclamata le sperimentazioni cliniche attuali sono rivolte alla prevenzione della malattia”, ha spiegato il professor Carlo Ferrarese, presidente della Società italiana per le demenze afferente alla Società italiana di neurologia (Sindem), Direttore scientifico del centro di neuroscienze di Milano dell'università di Milano-Bicocca e direttore della clinica neurologica presso l'ospedale San Gerardo di Monza. Nei pazienti affetti da Alzheimer, le cellule cerebrali nell'ippocampo - una parte del cervello associata a memoria e apprendimento - sono spesso le prime a essere danneggiate. Questo spiega perché la perdita di memoria e in particolare la difficoltà nel ricordare informazioni recentemente apprese, rappresentino spesso il primo sintomo della malattia. In generale, le cellule cerebrali subiscono un processo degenerativo che le colpisce in maniera progressiva e che porta successivamente a disturbi del linguaggio, perdita di orientamento spaziale e temporale e progressiva perdita di autonomia definita appunto ‘demenza'. La diagnosi della malattia di Alzheimer cambia la vita delle persone, non solo di quelle colpite ma anche dei loro cari. A tali deficit si associano spesso problemi psicologici e comportamentali come depressione, incontinenza emotiva, agitazione, vagabondaggio, che rendono necessario un costante accudimento del paziente, con un peso enorme per i familiari. In tutto il mondo, più di 44 milioni di persone soffrono di demenza: la malattia di Alzheimer ne rappresenta la forma più comune, e in Italia fa registrare circa un milione di casi. La Sin e la Sindem sono da tempo in prima linea per la ricerca dei meccanismi che attivano la malattia ed esortano a prestare un'attenzione maggiore alla prevenzione. “Alla base del morbo di Alzheimer vi è l'accumulo progressivo nel cervello della proteina chiamata beta-amiloide, che distrugge le cellule nervose ed i loro collegamenti. I dati più recenti - prosegue  Ferrarese - indicano che agendo nelle fasi iniziali di declino di memoria, quelle chiamate declino cognitivo lieve o mild cognitive imparment (Mci), alcuni farmaci potrebbero rallentare la progressione verso la demenza conclamata, perché si sono dimostrati efficaci nel bloccare i meccanismi biologici della malattia”. Nell'attesa dei risultati di queste terapie sperimentali, previsti per i prossimi anni, altri studi recenti indicano che vi sono efficaci strategie per ridurre la probabilità di ammalarsi in soggetti anziani normali o che presentano iniziali sintomi di decadimento cognitivo. Studi recenti hanno dimostrato, infatti, che la prevenzione dei noti fattori di rischio vascolare, come ipertensione, diabete, obesità, fumo, vita sedentaria, è in grado di ridurre l'incidenza di demenza: adottare adeguati stili di vita - attività fisica regolare, alimentazione ricca di sostanze antiossidanti come la dieta mediterranea - e tenere sotto controllo le patologie vascolari può già oggi essere consigliato come la migliore strategia per ridurre il rischio di demenza. Recenti studi sperimentali su modelli animali, inoltre, hanno avvalorato l'ipotesi che l'attività fisica in particolare, sia in grado di favorire la produzione di nuove cellule cerebrali, sostituendo quelle degenerate attraverso la produzione di fattori neurotrofici.Sia i dati degli studi clinici che quelli sperimentali aprono quindi nuove speranze per la prevenzione di questa devastante malattia. (MATILDE SCUDERI)

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