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Pane fresco, arriva l'etichetta per capire che cosa ci mangiamo davvero: non è sempre così "fresco"

di Andrea Tempestini domenica 15 ottobre 2017

3' di lettura

L’Italia è la patria del pane. Restiamo il Paese dove se ne consuma di più al mondo anche se nel corso degli anni ne mangiamo sempre meno. Secondo uno studio del Censis ne mangiamo circa 85 grammi al giorno, per persona. Solo nel 2010, però, erano 120 grammi al giorno, nel 2000 180 grammi, nel 1990 ben 197 grammi e nel 1980 230 grammi giornalieri. In trent’anni il consumo si è dimezzato. Per non parlare poi del 1861, anno dell’unità d’Italia, quando i sudditi di Vittorio Emanuele II ne consumavano oltre un chilo al giorno. La dieta, sempre più variata, ha portato con sé un calo inarrestabile di uno fra gli alimenti più antichi della dieta mediterranea. Ora che ne mangiamo meno, dovremmo poter scegliere fra una varietà infinita - i tipi di pane più diffusi nel Belpaese sono circa 200 - alla ricerca della qualità. Come accade per molti altri alimenti che portiamo a tavola e che costano relativamente poco. Così non è, purtroppo. Complice l’industrializzazione che ha riguardato nell’ultimo trentennio anche l’alimento ottenuto dalla cottura della farina, non siamo più nemmeno in grado di distinguere quello fresco dall’altro, ottenuto dalla cottura (o ricottura) di impasti lavorati in precedenza e congelati. Non è un caso se la Provincia autonoma di Trento ha appena approvato una legge provinciale che istituisce l’etichettatura «Pane fresco». L’obiettivo è proprio quello di aiutare i consumatori a individuare quello appena sfornato, senza interruzioni nel processo di lavorazione che oltretutto dev’essere svolta in un unico impianto. La norma, rinforza una disposizione già in vigore ma purtroppo spesso non rispettata nei punti vendita della grande distribuzione: l’alimento bianco fresco va tenuto rigorosamente separato da quello ottenuto tramite la cottura di impasti parzialmente cotti, surgelati o non surgelati. Non basta: il pane industriale, dev’essere messo in vendita «in imballaggi preconfezionati», riportanti precise indicazioni sul procedimento impiegato. Bisogna cioè specificare se si tratta di un prodotto ottenuto da «pane parzialmente cotto surgelato», oppure da «pane parzialmente cotto». La Commissione Agricoltura della Camera sta lavorando su una proposta di legge simile a quella del Trentino, ma con la fine imminente della legislatura non è certo che il provvedimento riseca ad arrivare in aula in tempo utile. Prima cioè delle elezioni. Fra le tante innovazioni previste nel testo presentato da Giuseppe Romanini (Pd) c’è proprio il divieto di definire «pane fresco», quello ottenuto dalla cottura di prodotti intermedi di panificazione, surgelati o meno che siano. «Purtroppo la legge del Trentino», spiega l’avvocato Dario Dongo, grande esperto di diritto alimentare e autore del sito Greatitalianfoodtrade.it, «non prevede alcunché sull’informazione agli avventori dei locali pubblici, dalle malghe ai ristoranti, dove si potrà omettere di precisare quando il pane sia fresco di forno oppure di congelatore». C’è infine un aspetto da non sottovalutare. Nell’alimento bianco decongelato «sono presenti alcuni additivi che modificano gli enzimi contenuti. Questo per evitare che le basse temperature cui è sottoposto con la congelazione lo cuocciano», spiega a Libero Stefano Fugazza, presidente dell’Unione artigiani di Milano e panificatore storico del capoluogo lombardo. «Un conto è mangiare il pane fatto col lievito madre, come quello che utilizzo io, cotto completamente al forno e servito ai clienti» racconta, «un altro è mangiare il pane che arriva spesso dai Paesi dell’est Europa e di cui si finisce la cottura nel punto vendita. Anche se è perfettamente in regola con le normative sulla salute e con le disposizioni di legge, si tratta di un prodotto diverso». di Attilio Barbieri

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