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Il mondo virtuale ci fa perdere di vista la realtà delle cose

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Steno Sari
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Dai “non luoghi” della surmodernità descritti dall’antropologo e filosofo Marc Augé, stiamo passando alle “non cose” frutto della transizione dall’analogico al digitale. In un saggio quanto mai interessante, il professor Byung-chul Han, con acume e lucidità, riflette sulla nostra epoca e sul futuro che stiamo costruendo in un “mondo sempre più nuvoloso e spettrale”. Anziché essere circondati da oggetti che ci fanno percepire il mondo e ci aiutano a “sentire” la realtà circostante, siamo travolti da impalpabili informazioni, inafferrabili dati che, paradossalmente, potrebbero allontanarci dalla realtà e dalla verità.

Ad esempio, la nostra infanzia era fatta di oggetti — fotografie stampate su carta, palloni di cuoio, bambole abbigliate di stoffa — e toccarli ci permetteva, affondando le dita, di percepire gli altri. La percezione tattile ci metteva in contatto con il mondo. Le nuove generazioni, invece, vivono una dimensione astratta, dove i dati e le informazioni predominano, e la “realtà” si realizza — o si derealizza — nello smartphone, nel videogioco e nel mondo dell’influencer. Il risultato è una visione narcisistica della società dove ciascuno ascolta solo sé stesso.

Il flusso costante e inarrestabile di informazioni è tale da rischiare di non lasciarci sufficiente tempo per l’ascolto, l’analisi e la valutazione. Se l’Ego si rafforza si indeboliscono le relazioni e si smarrisce l’empatia necessaria per sintonizzarsi sulla vita degli altri. La banalità informazionale fa svanire lo stupore, che è genesi di ogni filosofia e condizione indispensabile per attivare la teoresi (dal greco theoreo, vedere, indagare), cioè la sana speculazione intellettuale che innesca la ricerca e l’indagine, permettendo cosigdi vedere oltre il veduto e di pensare oltre il pensato. Il rischio è non sapere più approfondire ciò che accade intorno a noi, a tal punto che la realtà si livella sino ad appiattirsi.

Di conseguenza, scrive Byung-chul Han, “corriamo dietro alle informazioni senz’approdare ad alcun sapere. Prendiamo nota di tutto senza imparare a conoscerlo. Viaggiamo ovunque senza fare vera esperienza. Comunichiamo ininterrottamente senza prendere parte a una comunità. Salviamo quantità immani di dati senza far risuonare i ricordi. Accumuliamo amici e follower senza mai incontrare l’Altro” (Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, 2023).

Vivere un’esistenza digitalizzata, iperconnessa, iperefficiente e frenetica non dovrebbe privarci della capacità di distinguere ciò che accade intorno a noi. Distinguere presuppone prendersi il tempo di confrontare ciò che appare simile, ma anche saper cogliere la differenza tra cose che sembrano uguali. Non è soltanto una questione intellettuale volta a riconoscere un’affermazione vera da una fake news, ma la conditio sine qua non per vivere relazioni autentiche e tutelare la libertà. L’essenza è racchiusa in uno degli aforismi più celebri della filosofa tedesca Hannah Arendt: “Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma colui per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso non esiste più”.

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