Uno studio zittisce i catastrofisti: da 20 anni l'Artico non si scioglie

Secondo gli ultimi dati, la decomposizione dei ghiacci marini ha subìto un drastico rallentamento: nonostante le emissioni, dal 2005 non è stato registrato alcun calo statisticamente significativo
di Matteo Legnanigiovedì 21 agosto 2025
Uno studio zittisce i catastrofisti: da 20 anni l'Artico non si scioglie

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A inizio millennio in tanti, tra gli eco-talebani, avevano previsto che entro il 2020 l’Oceano Artico sarebbe stato sgombro dal ghiaccio. Cinque anni fa, sul pianeta è calata sì una disgrazia, ma si trattava dell’epidemia di Covid. I ghiacci artici invece erano ancora là, così come lo sono oggi. Anzi, un sorprendente studio pubblicato sulla rivista scientifica britannica Geophysical Research Letters da un team di scienziati dell’Università di Exeter mostra come, dalle rilevazioni satellitari, la superficie della cosiddetta “calotta artica” sia rimasta pressoché invariata nel corso degli ultimi vent’anni, come conseguenza di un rallentamento eccezionale dello scioglimento del mare ghiacciato dell’Artico.

La scoperta è sorprendente perché, scrivono i ricercatori inglesi, le emissioni di carbonio da combustibili fossili in questi due decenni hanno continuato a crescere, intrappolando un sempre maggior calore nell’atmosfera e, quindi, sul pianeta. Spiegano, tuttavia, che la variazione naturale che probabilmente causa il rallentamento è costituita dalle fluttuazioni multi-decennali delle correnti negli oceani Atlantico e Pacifico, che modificano la quantità di acqua riscaldata che fluisce nell’Artico.

«È sorprendente, dato l’attuale dibattito sul fatto che il riscaldamento globale stia accelerando, che in questo caso ci si trovi di fronte a un rallentamento» ha detto Mark England, che ha guidato lo studio, ripreso dal quotidiano inglese The Guardian. Per verificare se un rallentamento del genere potesse essere il risultato di una variazione naturale, England e i suoi hanno esaminato i risultati di migliaia di simulazioni dei modelli climatici, scoprendo che «non si tratta di un evento estremamente raro, ma che, anzi, in un secolo potrebbe accadere anche un paio di volte».

La misurazione delle dimensioni della calotta artica per mezzo dei satelliti è iniziata nel 1979, quando la superficie dei ghiacci era intorno agli otto milioni di chilometri quadrati. Lo studio condotto all’Università di Exeter mostra come nel corso degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e dei primi anni del nuovo millennio, pur con alti e bassi, la distesa ghiacciata polare sia via via andata riducendosi fino a quasi dimezzarsi intorno alla metà della prima decade degli anni Duemila, quando toccò i 4,5 milioni di chilometri quadrati.

Da quel momento in poi, tuttavia, seppur con oscillazioni annuali, è rimasta praticamente costante, con il dato riportato dal satellite Eumetsat che la dà ora a 4,77 milioni di chilometri quadrati. England è lungi dall’affermare che il riscaldamento globale sia una fandonia. Spiega, anzi, che le simulazioni danno come assai probabile che la superficie del mare ghiacciato dell’Oceano Artico riprenda a calare «nei prossimi 5-10 anni», aggiungendo che «questa variabilità delle correnti oceaniche e della temperatura dell’acqua al Polo Nord ci ha fatto sicuramente guadagnare un po’ di tempo rispetto alle previsioni catastrofiste di alcuni, ma si tratta comunque di una tregua temporanea e quando finirà non sarà una buona notizia».

Sempre al Guardian, Andrew Shepherd della Northumbria University sottolinea il fatto che, sebbene la superficie del ghiaccio artico sia rimasta pressoché invariata negli ultimi vent’anni, il suo spessore si è andato riducendo: «Sappiamo che il ghiaccio marino artico si sta assottigliando, quindi anche se la superficie non si sta al momento riducendo, il volume lo sta comunque facendo. I nostri dati mostrano che, dal 2010, lo spessore medio di ottobre è diminuito di 0,6 cm all’anno».

E lo stesso England respinge qualsiasi ipotesi dica che il cambiamento climatico non sia reale. Tuttavia, aggiunge, «è bene spiegare alle persone che il rallentamento sta accadendo, altrimenti lo sentiranno da qualcuno che cercherà di usarlo in malafede per mettere in discussione la nostra comprensione, molto solida, di ciò che sta accadendo al pianeta».

Come fece bene, nel 2020, l’ambientalista danese Bjorn Lomborg a sfatare il mito degli uragani sempre più violenti: comparando i dati meteorologici con quelli demografici e geografici, provò che la loro potenza distruttrice non era affatto aumentata, ma lo era la quantità di persone e di infrastrutture che nei decenni si erano radicate nelle zone costiere degli stati Uniti particolarmente soggette a quel fenomeno atmosferico. E di conseguenza i danni e le vittime.

Quelli di England e Lomborg sono moniti rivolti tanto ai “negazionisti” quanto ai catastrofisti, ossia a coloro che hanno trasformato il cosiddetto “climate change” in una sorta di neo millenarismo, secondo il quale la fine del mondo è vicina e occorre convertirsi alle energie rinnovabili (sia pur troppo tardi). Questo approccio, che Donald Trump negli Stati Uniti sta cercando di “smontare”, ce lo abbiamo in casa anche noi, un esempio fra tutti quello degli ultrà di “Ultima Generazione”.