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Anche gli alberi sono migranti climatici: l'ultimo delirio green

Secondo uno studio della Syracuse University dobbiamo aiutare le foreste a fuggire dal grande caldo: l'ossessione determinista di chi vive il climate change con rimorso, anche se la responsabilità umana è sub-iudice
di Andrea Tempestini venerdì 11 luglio 2025

2' di lettura

Alla nutrita schiera dei migranti climatici ora si aggiungono anche gli alberi: dobbiamo aiutare le foreste a fuggire dal caldo. Questo il succo di uno studio condotto dalla blasonata Syracuse University, studio ospitato sulle ancor più blasonate pagine di Science. L’assunto è che la boscaglia è destinata a morte certa poiché «non riuscirà a tenere il passo del cambiamento climatico», che corre troppo veloce. E a ben vedere è già in quel «non riuscirà» che casca l’asino: predizioni, mezze profezie, territori inesplorati sui quali però l’universo più estremo e illuminato della galassia ecologista ha granitiche certezze.

Le premesse: secondo l’ateneo statunitense, gli alberi hanno bisogno di uno o due secoli per spostare le loro popolazioni in risposta alle variazioni di temperatura (in quanto a selvicoltura sono un incompetente, eppure quei cento anni che ballano non sembrano una forchetta irrilevante se le certezze sono granitiche).

Per certo, secondo Syracuse, le foreste non hanno a loro disposizione né 100 né 200 anni. Hanno bisogno di aiuto, ora. Ed è qui che entra in campo la «migrazione assistita», tecnica che rende conifere e latifoglie degne dello status di rifugiato (status ancora non riconosciuto al migrante climatico in carne e ossa). Ovviamente non si tratta di sradicare un tronco per imbarcarlo e ricollocarlo ad altre latitudini. Si tratta in buona sostanza di piantare alberi avvezzi a climi più miti in territori tradizionalmente più freddi: aiutare l’esemplare arboreo ad accelerare la fuga.

David Fastovich, primo autore dello studio, spiega: «C’è una discrepanza tra i tempi con i quali le foreste cambiano naturalmente e ciò che sta accadendo oggi con il cambiamento climatico». E ancora: «I cambiamenti a livello di popolazione non saranno abbastanza rapidi da preservare le foreste a cui teniamo». Granitiche certezze derivanti dall’esame del polline proveniente da carote di sedimenti lacustri (ipse dixit) grazie al quale sono state ricostruite le “migrazioni forestali” degli ultimi 600mila anni. «Con questa nuova tecnica - riprende Fastovich possiamo comprendere come la dispersione e le variazioni demografiche interagiscono tra loro e come fanno cambiare una foresta nel corso di decenni, secoli e persino su scale temporali più lunghe: questo non era mai stato fatto prima».

Dato per certo che la tecnica sia valida, anche in questo caso ci permettiamo di notare come la complessa spiegazione di mister Fastovich afferisca al passato. Sul futuro, su quel che sarà, ci si limita a ipotesi e predizioni. Per carità, l’analisi predittiva è un approccio scientifico. E altrettanto per carità, nessuno nega il cambiamento climatico. Ma il punto - il circolo vizioso - è sempre lo stesso: se le temperature salgono la responsabilità è nostra? Nella migrazione assistita delle foreste (l’idea non è nuova: le prime teorizzazioni del trasloco boschivo risalgono ai primi anni 2000) scorgo l’ossessione determinista di chi vive il cambiamento climatico con rimorso anche se la colpa dell'uomo è sub iudice: sono stato io, devo rimediare io. Il determinista tormentato non ha fiducia nella natura ma solo in se stesso. Se ci pensate, il paradosso è macroscopico.

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