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L'editore di Diabolik: "Vi racconto il mio re del terrore: onore e etica d'acciaio"

Eliana Giusto
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Io, veramente, preferivo Tex. «Ma và. Diabolik è un brand. Se evochi il nome la gente -anche se non l' ha mai letto- ti cita il costume nero, le maschere, Eva Kant, perfino Ginko. Se evochi Tex, che vende molto molto di più, al limite ti viene in mente Kit Carson…». Oddio, un po' è vero. Nella sede milanese della sua Astorina editrice, Mario Gomboli, classe '47, architetto, direttore ed editore di Diabolik, declama, incassato in un piccolo sacrario del re del terrore. Scacchi, lavagnette, modellini di Jaguar E- -Type, busti come quelli del Duce, macchinette del caffè, Juke box, una bacheca enorme di premi. Petali di marketing sparsi ovunque. E l' assassino -infilato in quella calzamaglia nera da Kaberett weimariano anni' 30, che non ho mai capito bene- mi osserva dall' unica parete libera, con pugnale e occhi azzurro stroscopico. Diabolik è ritratto in mezzo alle sue due madri, Angela e Luciana Giussani, le signore omicidi della Milano borghese del boom e degli anni di piombo. Gomboli è talmente immedesimato nel suo personaggio che, per un riflesso pavloviano, mi verrebbe da fargli il controllo del volto. Ma Ginko non m' è mai piaciuto. Gomboli non le fa impressione che Diabolik diventi, in aprile, una serie tv, megaproduzione italo/anglo/francese in 12 episodi per Sky? «Il trailer è bellissimo. Ma ogni volta che entra un nuovo produttore ci vuole mettere il becco, si cambia il cattivo, si spostano le ville, ci si inventa che Diabolik, prima di Eva Kant era un tombeur de femmes, invece ha avuto una altra sola donna, ed è di una monogamia terrificante, e lo si vuole ambientare ai giorni nostri, con lo smartphone. Cose così, senza poesia. Ma quando, prima, gli americani entrarono in un progetto a cartoon con Donald Westlake fu ancora peggio. Volevano cambiargli il nome». Perché? «Perché "Diabolik" sapeva di satanismo. Non era il caso...» Mario Bava, regista del mitico film del '68 tratto dai vostri fumetti, si lamentava più o meno come lei... «Il film di Bava le Giussani non l' amavano. Ma era buono, pur risentendo dell' epoca: era troppo James Bond. Il rifugio lussuoso a picco sul mare, Diabolik che non lanciava mai un pugnale, Eva-Marisa Mell che era senza chignon. John Philip Law il protagonista era stato scelto dopo il forfait di Jean Sorel che, con Elsa Martinelli, aveva girato delle scene di prova. E prima di lui Diabolik doveva essere Alain Delon con Catherine Deneuve. La quale quando si trovò di fronte a Law -lui più di 1, 90, lei molto sotto l' 1, 60, praticamente gli baciava l' ombelico- si licenziò...». Andiamo con ordine. Diabolik conta 850 episodi dalla nascita e tre collane di successo. E voi siete appena usciti con la serie Dk, dove c' è un tizio uguale a Diabolik che è talmente ossessionato dall' essere riconosciuto che tende a pugnalare anche soltanto chi gli chiede l' ora per strada... «Sì, è un po' cruento». Alla faccia. Un po' mi sembra un eufemismo... «Però è un antieroe pronto per essere esportato negli Usa. Perché, per paradosso, pur essendo un ladro assassino figlio di puttana e se gli capita di fare del bene lo fa con tanto di guadagno personale, be' rappresenta istanze sociali. Ed è percepito come uomo d' onore, come un personaggio con una sua etica d' acciaio». Guardi che forse si sbaglia con Tex, o con Superman. «Ma no. Ci pensi. Diabolik fu il primo personaggio dei fumetti ad esporsi a favore del divorzio, al tempo del referendum». Questo perché Angela Giussani poi divorziò dal marito, l' editore Gino Sansoni... «...E, tra l' altro, era diventata talmente ricca che, quando divorziò, divenne la prima donna in Italia a pagare gli alimenti al marito. Lei ha ragione. Ma non era solo per quello. Diabolik, poi, si buttò a favore dell' aborto, e contro la droga. Addirittura le sorelle mi commissionarono una storia, Il segreto della rocca il cui protagonista doveva essere uno scrittore gay. Ci misi cinque anni a scriverla. Però Diabolik era un testimonial sociale perfetto». Veramente io ricordo le censure, il mitico pretore di Lodi che ne bloccò le pubblicazioni nel 62. Diabolik non fu accusato di corruzione di minore? «Se è per questo, anche di apologia di reato. O di violazione del comune senso del pudore quando, in una scena, Diabolik e Eva, non sposati, si addentravano, mano nella mano in camera da letto. Di spalle, e vestiti. I magistrati ci si mettevano di brutto, ma Diabolik veniva sempre assolto. La seccatura era che ogni volta che sequestravano il numero in edicola, erano milioni di danni». E le sue creatrici, le sorelle Giussani come la prendevano? «Due caterpillar. Erano due donne autonome, emancipate: Angela aveva il brevetto di pilota da turismo. Luciana vendeva aspirapolveri Folletto, era piena di brevetti sportivi. Negli anni 60 erano oltre il femminismo. Erano come Eva Kant». In che senso? Eva Kant non vendeva mica aspirapolveri. «Però quando Eva nasce, nel marzo del '63, subito dimostra di avere gli attributi, e salva la pelle a Diabolik. Tieni conto che sino ad allora le donne dei fumetti o erano cattive lesbicone o fanciulle un po' stupide sempre in pericolo. Eva ha ribaltato i ruoli». È vero che l' idea di Diabolik venne loro osservando i pendolari milanesi in treno? E che poi i personaggi di Clerville erano quelli dell' annoiata borghesia milanese? «Sì e no. In realtà si ispirarono ai criminali del feulletton ottocentesco tipo Rocambole o Fantomas trasferiti nel XX° secolo, il fascino dei cattivi vincenti. Il bello era vederle lavorare». Si dividevano il lavoro? «Angela era più dura, più pratica. Luciana era più romantica. Una studiava i delitti e l' altra si buttava sull' intreccio amoroso. Poi si scambiavano i soggetti per le correzioni, e di solito, lì litigavano. Erano fissate per i particolari, roba da studiose di antropologia criminale. Per esempio, non volevano mettere Diabolik ed Eva a torso nudo...». Ah, pudiche, le signore... «No. Era per le maschere: a torso nudo non erano verosimili: "E se si vede l' attacco della maschera come lo giustifichiamo coi lettori?". I lettori per loro erano tutto. Io tentavo di convincerle che coi lettori si crea una complicità, che i dettagli non contavano». Lei, Gomboli, ha un passato da architetto e professore, ha due figlie trentenni che veleggiano tra grafica e architettura. Insomma, una vita borghese. Com' è che s' è incagliato nei fumetti? «Per caso. Arrivai dalla Giussani da studente. Mi pagavano le idee: i trucchetti della Jaguar, i vari modi per uccidere, le fughe le cassaforte imprendibili. Un giorno, era il periodo delle Brigate Rosse, mi ero sistemato in un seminterrato/ufficio chiamato "R", come "Rivoluzione"...». Il modo migliore per non essere notati, dato il periodo. «...Appunto. Mi chiamò Luciana al telefono e chiese: "Mario, devo far morire uno in una cabina telefonica senza lasciare traccia. Come faccio?". Pensai: ma che cavolo dico se finisco in un' intercettazione della Digos? Mi pagavano 15mila lire a idea, 100mila a soggetto. Mi pagai l' università, e ogni volta che volevo cambiare macchina costruivo un omicidio». Industrialmente l' editrice è appetibilissima. Hanno cercato di comprarvi? «Riceviamo offerte ogni anno. Ma le sorelle non vendevano perché mettevano sempre la clausola che il nuovo padrone doveva accompagnare i dipendenti alla pensione». Sa, dopo quest' intervista provo molta più pietà per l' ispettore Ginko, uno gabbato da cinquantatrè anni... «Be' una volta ha vinto, nell' episodio La vittoria di Ginko. Una. Comunque in fondo il nostro è un delinquente simpatico. Mi torna in mente Altan quando diceva: "Più mi guardo intorno, più Diabolik mi sembra un bravo ragazzo". di Francesco Specchia

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