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La lunga notte, Alessio Boni: "Gli italiani un popolo di smemorati"

Daniele Priori
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Alessio Boni, attore dal piglio recitativo austero fino a rasentare la severità, è in realtà un coraggioso avventuriero. Nato 57 anni fa a Sarnico, in provincia di Bergamo, sulla sponda occidentale del lago d’Iseo, da ragazzo ha vissuto mille vite in una. E forse non a caso, dopo una gioventù che lo ha portato ad essere prima poliziotto, poi cercatore di fortuna negli Stati Uniti, è tornato in Italia, scegliendo il mestiere dell’attore che padroneggia con maestria da ormai tre decenni e con un sogno ancora nel cassetto: approdare alla regia cinematografica. Stasera, domani e mercoledì sarà protagonista di tre grandi prime serate di Rai Uno dove lo vedremo nei panni di Dino Grandi, il gerarca fascista che osò mettersi contro Mussolini provocandone la caduta, La serie in sei episodi, coprodotta da Rai Fiction e Eliseo Enterntainment, si intitola La lunga notte - La caduta del Duce ed è diretta da Giacomo Campiotti.

Cosa ha rappresentato per lei entrare in un personaggio controverso come Dino Grandi?
«Adesso è controverso. Nel 1943 era quello che ha avuto il coraggio di affrontare faccia a faccia il Duce. Chiaramente da parte mia non c’è nessun avallo nell’interpretare una persona del genere. Io sono di sinistra, lo sanno tutti. Ma serve a far conoscere un pezzo di Storia ai ragazzi che non sanno nulla. Non conoscono l’armistizio, non sanno cosa è successo quando fu destituito Mussolini. Mi è sembrato un pezzo di Storia interessante, scritto dai due sceneggiatori e storiografi, Franco Bernini e Bernardo Pellegrini, in cui non ho trovato né agiografia, né santini, né eroismo. È la documentazione del fatto che questa persona, gerarca fascista, uno dei più alti in carica nel Gran Consiglio, aveva capito che il fascismo aveva perso, aveva fallito, soprattutto con il Duce e non poteva andare avanti. Tutti lo avvertono, anche il popolo che non ce la fa più. Lui, però, va a Palazzo Venezia con due bombe a mano in tasca, pronto a farsi saltare in aria perché mai avrebbe pensato di vincere e invece alla fine ce la fa. Poi, peraltro, Dino Grandi scapperà in Portogallo, in Brasile. Non si farà vedere in Italia per anni. Quindi non c’è davvero nessun eroe, a parte i nipoti di Grandi, gli unici che avranno davvero un’etica positiva, rivolta al popolo. Con la ragazza che diventa crocerossina e il ragazzo si iscrive al Partito d’Azione, fino all’abbraccio liberatorio quando gli angloamericani assieme ai Partigiani destituiranno il fascismo».

Cosa l’ha appassionata di più in tutto ciò?
«Mi ha appassionato entrare dentro quel periodo storico. E proprio perché la gente non sa come sono andate le cose, penso sia compito della tv di Stato farle conoscere anche per evitare, speriamo, di cadere nuovamente in certi errori».

In generale raccontare il fascismo in Italia è ancora complicato. Per lei è stata una scelta più difficile o coraggiosa di altre entrare nel ruolo di Dino Grandi?
«Guardi, io adotto una tattica interessante, profonda, che ho appreso da Falcone e Borsellino. Loro della mafia dicevano che per debellarla la si doveva conoscere a fondo, appassionatamente, pensando come i mafiosi. Che non significa arrivare ad avallarla ma conoscerla, amarla quasi, per poterla sconfiggere. Poi naturalmente ogni ruolo è a se stante e ha il suo perché. Semi proponessero di fare Hitler o Stalin con una bella sceneggiatura e un buon cast, per me avrebbe una valenza uguale a qualsiasi altro ruolo. È il dittatore che pensa in quel modo e quello dell’attore è il lavoro di doversi staccare dalla propria morale per entrare in quella di un Hitler o di uno Stalin, fino a pensare come loro. È un lavoro difficilissimo. È normale che mi risulti più facile interpretare il Don Chisciotte, uno che lottava contro i mulini a vento per salvare più deboli e le donne! Però scardinare ed entrare dentro il pensiero fascista di un Dino Grandi ha avuto il suo fascino anche se ci ho messo molto e ho dovuto provare più e più volte il saluto romano perché non mi veniva, in quanto si tratta di un gesto che non mi appartiene».

Poi però è riuscito.
«Devi riuscire a crederci per essere credibile. Ho letto che Bruno Ganz, un uomo fieramente di sinistra, dopo aver interpretato Hitler, è stato per tre anni in analisi ma è l’unico modo, altrimenti non devi accettare parti simili...».

Secondo lei siamo vicini al raggiungere la memoria condivisa nel Paese di cui tanto si parla o c’è ancora molto da lavorare?
«Si fa una gran fatica e bisogna sottolinearlo in continuazione. La gente non sa. Se chiede in giro, dalla Valle d’Aosta in giù, chi è stato Dino Grandi, scoprirà che non ne hanno idea. Avere coscienza civile vuol dire poter cambiare il Paese perché sai che cosa sei stato prima. Questa memoria che è concreta fa fatica a entrare nelle case delle persone obnubilate dal mondo multimediale di oggi che è per lo più fasullo».

A proposito di formazione. Che ruolo hanno avuto nella sua vita grandi maestri come Luca Ronconi, Lilliana Cavani, Giorgio Strehler ai quali si è trovato a fianco già da giovane attore?
«Ho avuto la fortuna di averli incontrati. Oltre quelli che ha citato penso a Orazio Costa, a Carlo Lizzani, a Marco Tullio Giordano, a Roberta Andò, a Cristina Comencini con cui siamo andati agli Oscar nel 2006 per La bestia nel cuore. Questi personaggi ti forgiano perché sono davvero fuori dal comune. La gente deve smettere di inseguire miti assurdi e farsi trasportare dalle parole e dalla grandezza di grandi insegnanti al di là della professione si andrà a fare».

Recentemente l’abbiamo vista nei panni del Maresciallo Fenoglio. Le è servita la sua esperienza da giovanissimo poliziotto che ha fatto a 19 anni?
«Quell’esperienza ha influito su tutto. Mi ha dato regole, ordine, disciplina. Mi ha insegnato a stare zitto, non essere invadente e non esagerare, soprattutto quando stai con le persone. Meglio ascoltare che dire baggianate. A quell’età si è ineducati alla vita e quell’esperienza, fatta poi in una Milano che esplodeva negli anni 80, mi è davvero servita tantissimo. Poi è naturale che certe cose me le sono ritrovate anche nella recitazione: per fare il carabiniere, oppure nel film Yara, dove ho interpretato ruoli non recitando ma rievocando, perché ce li hai dentro. Del resto ho fatto quindici mesi in Polizia, quindi stare sull’attenti e mettere la mano al cappello te lo faccio a menadito se vuoi... (sorride, ndr)».

Poi però è fuggito negli Stati Uniti a 20 anni. Lo considera un sogno sfumato?
«Quando sono andato in America neanche pensavo di fare l’attore. Volevo imparare l’inglese, puntare sull’import export di vini. Poi è andato tutto a scatafascio perché non è così semplice vivere lì».

E ora non sogna di tornarci da attore, magari a Hollywood?
«Guardi, non voglio fare lo snob, ma non ci ho mai pensato. Credo che fare un bel lavoro qua in Italia con un buonissimo cast valga tanto quanto un lavoro americano. L’unica differenza è che lì ci sono più soldi. L’ho visto sul set di The Tourist. Solo in quello e fa tanta differenza. Ricordiamoci però anche in questo i nostri precedenti. Non abbiamo niente da invidiare. Se mi chiamassero certamente andrei, ci mancherebbe! Ma non ho mai avuto il mito di Hollywood. Le dico anzi che sono attratto più da Bollywood. Mi chiamassero per un film indiano correrei. Hanno una cultura meravigliosa. Mi divertirei da morire».

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