Francesca Archibugi è una regista impegnata. Soprattutto a farsi finanziare dallo Stato i film che gira e a difendere strenuamente queste elargizioni. «Basta sfottò, il cinema italiano è in crisi. Il ministro Giuli pensi a salvarlo», ha sentenziato, opponendosi alla riforma del tax credit, gli sconti fiscali che fanno sì che spesso un film riceva dallo Stato più di quanto incassa al botteghino; una circostanza che è quasi la regola perle pellicole girate dall’artista in questione. Singolare, Archibugi; quando si rivolge alla politica, lei non parla, dispone, come se i rappresentanti del governo fossero attori ai suoi ordini sul set. La signora svolge la professione di regista da quasi quarant’anni; peraltro ha fatto anche buone cose, specie all’inizio, come Mignon è partita (1988) o Il grande cocomero (1993), tuttavia è convinta che il cinema lo debba salvare il governo, non lei o i suoi colleghi, che devono essere liberi di fare impresa senza badare ai conti, con i soldi dei contribuenti, «per mantenere viva la cultura», dice. Un po’ come se gli scrittori chiedessero alla politica di finanziare loro le librerie e le case editrici perché ormai gli italiani leggono poco e questo rischia di rendere il Paese più ignorante. Chiunque fa un libro è esentato dal pagare le tasse, ha spese di distribuzione agevolate e, se a giudizio insindacabile di una commissione, prima di iniziare a scrivere si pensa che faccia un buon lavoro, ha diritto a un cospicuo assegno. Per la letteratura è un sogno irrealizzabile, per il cinema è la normalità e se si prova a mettere ordine in una melassa che serve anche a finanziare film che non escono e avventurieri a caccia di soldi facili... Governo ladro e pure ignorante, secondo l’artista impegnata.
SOLDI A PIOGGIA
Con il giochino del denaro a pioggia per chi dice “ciak, si gira”, Archibugi, da quando l’ex ministro dem, Dario Franceschini, ha riformato il tax credit, nel 2017, garantendo al cinema finanziamenti complessivi per 7,2 miliardi in otto anni, ha scritto o girato nove film e ricevuto quasi 21 milioni di euro di aiuti dallo Stato. Clamoroso il caso de Il trafficante di virus, uscito subito dopo il Covid. Storia di una ricercatrice scientifica che per sintetizzare un vaccino sacrifica la propria vita sentimentale ma, quando lo trova, fatica a diffonderlo. Malgrado il traino della pandemia l’opera, che ha ottenuto un milione e mezzo di finanziamenti pubblici, ha registrato al botteghino un incasso di neppure quindicimila euro. Forse per la scarsa aderenza alla realtà della trama. Non tanto meglio era andata a Vivere, morbose disavventure di una ragazza alla pari alle prese con la borghesia romana e la periferia capitolina: lo Stato ci ha messo un milione e centomila euro, in sala la vendita dei biglietti non è arrivata al mezzo milione. Comunque, quando Archibugi prende la penna per scrivere trame, il surreale la fa spesso da padrone. È lei che ha scritto Siccità, aspirante opera catastrofista ambientata in una Roma dove non piove da tre anni e perciò i cittadini perdono la testa, la convivenza nell’urbe è oltre la soglia della crisi di nervi e la mancanza d’acqua porta a epidemie.
Correva il 2021 e il termometro dell’allarme clima era ai massimi. Poi ci sono stati due annidi precipitazioni record e per l’artista è stata una doccia fredda: undici milioni spesi, quattro e mezzo intascati al botteghino, più quattro dallo Stato perché l’ipotizzata tragedia ambientale non si tramutasse per la produzione in un sicuro disastro bancario. Il surreale è il tema forte della signora anche quando divaga oltre i confini del suo lavoro. «Carlo Giuliani oggi ha 38 anni, lavoro, figli e giornate belle e brutte come tutti. Ride del ragazzino con l’estintore. Non è più un estremista», ha detto del giovane con passamontagna ucciso dalle forze dell’ordine mentre nella calura di luglio dava l’assalto a una camionetta dei carabinieri. A tutti piacerebbe che fosse andata così, ma nessuno può sapere che pieghe avrebbe preso la vita di quel giovane sfortunato. Se Archibugi vorrà farci un film, chiederà però probabilmente allo Stato che denigra di finanziarglielo. All’insegna del fatto che in nome della libertà d’espressione, per gli artisti impegnati vale tutto. In realtà la lamentosa regista, con la sua esperienza personale, è la prova che il governo fa per il cinema più di quel che dovrebbe. Tiene in piedi un’industria che non riesce a tenere il mercato, e non solo perché gli spettatori in sala sono sempre meno e la vendita delle opere alle piattaforme sovente non copre i costi delle riprese. La ragione per la quale il cinema è in crisi è perché i nostri registi e attori fanno gli americani. Pensano di stare a Hollywood e non a Cinecittà e, quando progettano un film, non badano a spese, incuranti di muoversi in un mercato che, naturalmente, non può garantire loro gli stessi introiti delle star a stelle e strisce.
IN TV NON VA MEGLIO
Un’opera come La storia, per esempio, della quale Archibugi è regista e sceneggiatrice, premiata con i Nastri d’Argento, è costata diciannove milioni di euro, con uno sconto fiscale di quasi sei milioni. Il lavoro, otto puntate da un’ora l’una, tratto dal romanzo di Elsa Morante, è andato in onda su Rai1 lo scorso gennaio, chiudendo con ascolti sotto il 20%, due punti in meno della media di rete perla prima serata. Insomma, rientrare nelle spese è un’altra storia rispetto a girare pellicole interessanti. Fa niente, la signora appartiene a quella nutrita schiera di intellettuali per i quali le proprie verità e i propri pensieri sono quelli di tutti, e perciò, se diventano film, da tutti devono essere sostenuti. Dissensi non sono ammessi. Archibugi ha una visione proprietaria dello Stato e delle sue disponibilità. È passata alla storia la dichiarazione che, da sempre attenta ai problemi sociali e anche al tema dell’infanzia, la regista fece sul caso di Bibbiano, l’inchiesta sui bambini sottratti ai genitori dagli assistenti sociali poi risoltasi in nulla. «Il bambino non appartiene ai genitori», disse difendendo l’idea che lo Stato possa intervenire pesantemente nei rapporti famigliari. Se ci sono abusi conclamati, certo, mala questione di Bibbiano verteva appunto sulla consistenza reale dei motivi in base al quale i figli erano stati sottratti a padre e madri. In ogni caso, alla regista va riconosciuta una certa coerenza nella sua visione paternalistica dello Stato: quando deve lavorare, non disdegna di attaccarsi alle mammelle pubbliche fino a sazietà.