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Sangiuliano, la riforma taglia-sprechi non piace allo star system rosso

Le nuove regole del Ministero mettono un tetto ai sussidi dello Stato pari al 60% delle spese. Il confronto con l’estero: produciamo più film ma i ricavi in sala sono la metà
di Pietro Senaldi giovedì 22 maggio 2025

3' di lettura

Il film di Luca Guadagnino Queer è la storia di due omosessuali. Uno è più convinto, l’altro meno e per questo si inseguono in un rapporto tormentato su e giù per il Messico e il Sud America. Per agevolare il rapporto usano droghe di ogni tipo che li portano ad avere allucinazioni incredibili e, inevitabilmente, a separarsi quando, recuperata la lucidità non riescono a stabilire un equilibrio. Una storia estrema nella quale è difficile orizzontarsi quanto improbabile identificarsi. Ma è l’arte. Per sfornare questo polpettone che dura oltre due ore e fa cambiare i gusti all’ex 007 Daniel Craig, il regista ha speso 53 milioni di euro. Come plausibile, malgrado il titolo alla moda, gli incassi, pur insospettabili (6,7 milioni) non hanno assolutamente coperto i costi.

Malgrado la storia si svolga tra Città del Messico e Quito, capitale dell’Ecuador, la maggior parte delle scene sono state girate a Cinecittà, dove è stato riprodotto un intero quartiere di Città del Messico anni Cinquanta. Altri ciak sono stati fatti in Sicilia. Pare fosse l’ideale per ricreare le ambientazioni di Panama. L’opera è del 2024 e i conti ancora devono essere fatti bene, ma il tax credit garantisce l’esenzione fiscale per il 40% delle spese sostenute in Italia. Non è difficile immaginare la botta.

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È anche per tutelarsi dal dover far fronte a certi conti che il ministero della Cultura, nella riforma contestata dallo star system, ha pensato di introdurre un tetto ai rimborsi al cinema. Il contributo pubblico, per disposizione dell’ex titolare del dicastero, Gennaro Sangiuliano, non può superare il 60% delle spese totale. D’altronde anche chi, come il regista Pupi Avati, ha contestato la riforma del tax credit, si è detto favorevole a un argine legislativo. La sua proposta, che la prossima settimana presenterà all’esecutivo, è di limitare lo spettro dei film che lo Stato può sovvenzionare a quelli che non superano i 3,5 milioni di tetto complessivo. Del resto, il pubblico delle pellicole italiane è ridotto e queste sono le cifre di un carrozzone che è in via naturale di ridimensionamento, per questioni di mercato e non per scelte politiche.

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A chi protesta, occorre ricordare che all’estero le produzioni, che pure riempiono le sale più che in Italia, ricevono meno sostegno. Nell’anno pre-Covid 2019, per esempio, il nostro Paese ha prodotto 268 opere al 100% nazionali, contro le 185 della Francia, le 212 della Spagna, le 222 del Regno Unito e le 179 della Germania, nazioni che, a parte quella iberica, che ci ha eguagliato, hanno visto incassi al botteghino all’incirca doppi rispetto a noi. In nessun altro Stato comunque si sono verificati casi di opere finanziate con 700mila euro e premiate in sala da solo 29 spettatori o pellicole con budget da 17 milioni di euro ma che ne hanno incassati solo 80mila. Come le tartarughe, Redenzione, Era ora, Il silenzio degli dei, Le ragazze non piangono: titoli sconosciuti che fanno parte del mazzo delle venti pellicole che complessivamente hanno beneficiato di più di undici milioni e mezzo di finanziamento incassando ciascuna meno di duemila euro. «Andiamo avanti così, facciamoci del male», potrebbe chiosare Nanni Moretti, non fosse che è tra i registi che più si sono lamentati per la riforma tesa a porre fine a certi sprechi.

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