Sempre dalla parte sedicente “giusta” e più utilitaristica della narrazione politica, ma non dalla parte della storia e della verità: soprattutto quando storia e verità non sono dalla sua, di parte. La sinistra affetta da transfert freudiano compulsivo urla e strepita alla censura Rai sui film che gonfiano le vele afflosciate della propaganda, ma la memoria è assai corta su equilibrio, senso di giustizia e moralità nel rapportarsi col passato e col presente. Anche al cinema.
Indignazione al climax, e grida alla censura “fascista” sui temi nobili di Gaza del genocidio stabilito tale nelle segreterie di partito, sulla nazista “perfidia” degli ebrei oggi israeliani (Goebbels docet) e sulla grande bellezza dell’immigrazione di massa in Italia, attraverso i titoli militanti Open Arms. La legge del mare e No other Land, con l’aggiunta pure di Io capitano, nel palinsesto Rai con preannuncio e poi spostamento orario.
Altro che TeleMeloni. Mentre basta voltarsi indietro per avere riscontro scientifico sulla censura egemonica della sinistra col bando ai titoli sgraditi e avversati con metodi sovietici. Due titoli buttati lì sono emblematici del senso di libertà, democrazia e confronto di idee che alberga negli eredi dell’ex Pci.
Il primo è Porzûs di Renzo Martinelli, anno di disgrazia 1997. Chi l’ha visto? E quali scabrosi temi sovversivi conteneva la pellicola? Un eccidio di partigiani, uno dei tanti della seconda guerra mondiale, solo che a questo non si poteva appiccicare l’etichetta di nazifascista, perché i carnefici erano comunisti che avevano messo al muro quelli che non la pensavano come loro. Fuoco incrociato contro il film già a partire dalle riprese, con permessi negati in Friuli, imbarazzi malcelati, velenose accuse di revisionismo. Martinelli dovette girare in Abruzzo, a Santo Stefano di Sessanio, ma ormai il tam tam di boicottaggio dei compagnucci permalosi era già partito e quella pellicola in sala non ci arriverà, soffocata nella culla per mancanza di poppate al botteghino e senza neppure il ruttino del dvd consolatorio. Per un passaggio Rai si dovrà attendere il 2012, ma su un canale “zerovirgola”, mica su uno dei tre generalisti.
Vabbè, si dirà, ma mica stiamo parlando di un capolavoro... E allora che dire di un film candidato all’Oscar, firmato da uno dei più importanti registi di tutti i tempi? Andrzej Wajda nel 2007 realizzò Katyn, che rievoca l’eccidio nel 1940 di 22.000 ufficiali polacchi giustiziati con un colpo alla nuca e sepolti nelle foreste bielorusse di Katyn. Il problema è che quella mica era una strage dei nazisti. Era opera di Stalin che nel 1945 tentò di imputarla ai tedeschi a Norimberga, e chi sosteneva il contrario era un nemico da eliminare e distruggere; come accadde in Italia all’anatomopatologo di fama internazionale Vincenzo Palmieri il quale aveva effettuato gli esami necroscopici sui cadaveri, che l’Unità insultava e che gli studenti comunisti contestavano all’Università di Napoli. Il regista Wajda a Katyn aveva perso il padre, ufficiale polacco.
La società Movimento che distribuì il film in Italia nel 2009 andò a sbattere contro il muro dell’ostracismo ideologico e il pervicace boicottaggio al botteghino. E subito dopo i volenterosi artefici di sinistra ci misero l’asse di briscola, ostativo, perché di passaggi Rai si ricordano un due di notte e una mezzanotte avanzata, tanto per favorire la conoscenza di una delle più orrende pagine di storia del Novecento, che solo nel 1989 venne riconosciuta come crimine comunista da parte di Mikhail Gorbacëv.
Un altro film continua a fare paura e a non superare il perimetro intimo delle proiezioni di circolo cinefilo e di partito: Il leone del deserto, i cui diritti furono acquisiti dalla Rai per non trasmetterlo. Si tratta di un polpettone del 1980 che Gheddafi impastò con petrodollari per assicurarsi le star del cinema come Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger, Irene Papas, e narrare la storia banalizzata dell’eroe libico Omar al-Mukhtar protagonista della resistenza antitaliana e anticolonialistica.