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Strehler e le canzoni della mala: Ornella Vanoni amava Milano ma non i suoi difetti

Gli esordi, quella voce inconfondibile. Cantava “Ma-mì” per strada anche il 25 aprile E sul palco della Statale per la laurea honoris causa aveva chiesto a Sala: dedicatemi un’aiuola
di Simona Bertuzzidomenica 23 novembre 2025
Strehler e le canzoni della mala: Ornella Vanoni amava Milano ma non i suoi difetti

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Con Feltri si vedevano spesso. Lui diceva che se fosse nato donna sarebbe stato la Vanoni. Lei ricambiava cordialmente la stima e gli confessava le sue paure prima di salire sul palco «sai che non mi ricordo un cazzo?».

Una fuori dal comune Ornella, in quella Milano che l’aveva accolta quando era solo la figlia unica di una famiglia perbene in una casa «molto silenziosa» da cui vedeva giusto due vie. E quando poi la riaccolse da giovane innamorata e trafelata che mandava «giù di corsa un pezzo di focaccia per non arrivare tardi a lezione».

Pillole di vita e di ricordi che Vanoni ha scritto nel suo ultimo libro “Vincente o perdente” per La nave di Teseo. Dove un capitolo è proprio dedicato a Milano. Lei che di Milano aveva conosciuto il sapore vero, le osterie che tenevano aperto per i tiratardi degli spettacoli, le case di ringhiera mezze rotte e un po’ poetiche, il Piccolo che era in realtà il gigante di Strehler, il suo grande amore. La prima volta che lui le disse ti amo le fece rompere «il carapace dentro cui ero imprigionata», tanto per dire.
Cantava la mala, Vanoni... i poliziotti e i ladri delle stradacce buie e polverose dove le saracinesche erano sempre chiuse e le vecchine camminavano in fretta con la borsetta stretta contro il cappotto. Dicono che fosse talmente credibile e calata nella parte che qualcuno ogni tanto in platea sussurrava all’orecchio del vicino, «ma non sarà anche lei dell’ambiente?». Dietro quella versione canora della mala c’era un “inganno creativo” nato dalla mente di Strehler, di Fiorenzo Carpi, di Dario Fo e di Gino Negri. Ed era così appassionante che la rese famosa subito.

Eclettica e profonda. Dedicava Ma-mì ai partigiani. Non c’era niente di allegro in quei versi - la storia di 4 partigiani catturati dal nemico che vengono interrogati e scelgono di non parlare - ma la musica la faceva sembrare una ballata allegra. Vanoni l’ha intonata giusto il 25 aprile di quest’anno. Seduta dentro un gonnone lungo blu che la faceva sembrare più alta e sottile del suo solito apparire, l’ha regalata ai milanesi infreddoliti sulla strada, mentre l’amica di una vita, la regista Ruth Shammah, batteva le mani a tempo di musica e la accompagnava con qualche passo di ballo: «ma mi ma mi ma mi, mi sont de quei che parlen no».

La nebbia la trovava soffocante. Anche le piante arrampicate sui palazzi e scomparse dalle strade per far posto ai parcheggi le parevano un’iperbole sgradita. Ma non era questo il tarlo. Che sia diventata stronza Milano? si domandava e domandava. Forse. Sta di fatto che una milanese come lei non aveva problemi a dirlo sul palco. Vedeva tutte le magagne: i ragazzi delle periferie che arrivano incazzati e picchiano duro i poveretti, la voce grossa degli arroganti, i grattacieli dritti-storti-troppi che svettano oltre la Madonnina e coprono il suo sguardo generoso. I conti proibitivi. L’odore di fritto di certi localini svelti. E poi i bar vuoti di chiacchiere e risate, pallida replica di quelli che erano stati i bar della vecchia milanesità.

Ma dov’erano finiti tutti quanti? Dov’era finita la Milano generosa che le accendeva i lampioni «perché potessi tornare a casa sana e salva». Una vita passata sul palco e a calcare le scene di città e neppure un ambrogino d’oro, possibile che nessuno ci avesse pensato?

Pochi mesi fa era arrivata però la laurea ad honorem della Statale. Lei l’aveva accolta con il consueto sorriso: «Io non ho mai studiato, sono una cialtrona. I miei sarebbero impazziti dalla gioia a sapere che io ho una laurea». Poi si era tolta qualche sassolino dalla scarpa. Non si pensi di rabbia, non era proprio il suo marchio.

Solo un invito amichevole al sindaco a riconoscerle qualcosa di concreto, un simbolo, un segnale di affetto. «Il teatro Lirico l’hanno dedicato a Gaber, le due sedi del Piccolo a Strehler e a Grassi, la Palazzina Liberty a Fo e a Rame, lo Studio alla Melato. Per me non è rimasto niente. Per questo rivolgo un appello al sindaco Sala: mi dedichi un’aiuola in centro», chiedeva con ironia. Però sia chiaro: la voleva da viva mica da morta, «me ne prenderei cura di persona. Pianterei fiori e pomodori». Una fonte di gioia e di risate inesauribile strizzate in 91 anni incredibili. Quanti luoghi e quanti tempi. La casa di largo Treves, bellissima e amatissima. Poi una più piccola in Brera «perché paga questo, paga quello» alla fine devi stringere, con i vicini che la sentivano cantare la sera fino a mezzanotte. Ieri c’era una rosa bianca lì davanti ai cancelli.
Forse la prima di tante che arriveranno in queste ore. Persino i custodi delle sue vecchie abitazioni l’hanno omaggiata, «una donna gentile e generosa».

Aveva aperto le sue porte a una prestigiosa rivista di arredo per far vedere quanto una casa piccola e luminosa potesse contenere tutto quanto. La gioia di vivere anzitutto. Poi le opere di tanti amici artisti, Melotti, Novelli, Enzo Cucchi, Arnaldo Pomodoro. Gaber?, gli schiese Cazzullo sul Corriere per sfrucugliare la Milano dei grandi. Risposta: «di una dolcezza infinita». Jannacci? «Ogni volta che lo vedevo mi esplodeva il buonumore». Poi tornava il cruccio di sempre, in ogni intervista: amatissima Milano ma «punta tutto sui soldi e basta.... non c’è altro argomento».

C’era stata anche la parentesi politica, è bene ricordarlo. Grazie a Strehler che l’aveva introdotta nell’ambiente, sentiva una certa vicinanza agli ideali socialisti.  Tangentopoli l’aveva molto delusa. Craxi no, erano amici dagli anni 70. Ma nel maggio 1987 aveva rifiutato il suo invito a candidarsi alle politiche col partito socialista «Mi spiace ma proprio non posso». Pazienza... E Berlusconi? Conosciuto a una cena una vita fa. E subito lo trovò «simpatico, empatico, accogliente». La candidatura alla fine non mancò. Arrivò in anni recenti. Nel 2011 alle comunali. Vanoni correva con la lista civica “Milano al centro” a sostegno di Letizia Moratti. Ebbe solo 36 voti. Ma non se ne fece certo un cruccio. In fondo le istituzioni le amava sempre. Anche se talune erano state un po’ aridine con lei.

La camera ardente sarà oggi e domani al Piccolo Teatro. Ma c’è chi giura che si sarebbe accomodata volentieri anche nelle magnifiche stanze di Palazzo Marino. Ieri Sala l’ha detto chiaramente che un’aiuola sola per lei non basta. E siamo sicuri le darà il giusto riconoscimento. «Una donna libera. Questa è stata Ornella Vanoni», ha detto. «Una delle più belle voci della musica italiana, una voce elegante e profonda. Ci lascia canzoni eterne. La sua Milano, che l’ha sempre amata, non la dimenticherà». Ne siamo certi. Però aveva ragione lei quando ospite di Fazio a Che Tempo Che Fa aveva ribadito il concetto: «Danno tutto da morti... lo facessero da vivi uno è anche più contento».