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Nanga Parbat, Daniele Nardi e la lettera al figlio di otto mesi: il messaggio prima di morire

Gino Coala
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La morte degli alpinisti Daniele Nardi e Tom Ballard, i cui corpi sono stati localizzati in Pakistan a 5900 metri di quota sullo sperone Mummery del Nanga Parbat, la nona montagna più alta al mondo, ci interroga di nuovo sul misterioso impasto di bellezza e follia che è l' alpinismo, quando osa imprese così rischiose. Leggi anche: Nanga Parbat, la cupa profezia di Simone MOro prima della morte di Nardi e Ballard Daniele Nardi era diventato padre solo lo scorso settembre, e al suo bambino, Mattia, ha lasciato queste parole, riferite dalla famiglia: «Mi piacerebbe essere ricordato come un ragazzo che ha provato a fare una cosa incredibile, impossibile, che però non si è arreso, e se non dovessi tornare il messaggio che arriva a mio figlio sia questo: non fermarti, non arrenderti, datti da fare perché il mondo ha bisogno di persone migliori che facciano sì che la pace sia una realtà e non soltanto un' idea, vale la pena farlo». Sono parole toccanti, di fronte alle quali non dubitiamo per un istante che, purtroppo per lui, Nardi non sarebbe mai tornato indietro dalla decisione di intraprendere la spedizione fatale. La fidanzata di Ballard, invece, non risparmia all' amore della sua vita, proprio nel momento dell' ultimo saluto, parole aspre: «Non hai voluto ascoltarmi quando ti ripetevo che non dovevi andare, che i tuoi sogni non erano lì, per questo madre natura non ti ha protetto. Ti ritroverò nella natura, nei fiumi negli alberi nelle montagne. La montagna prende e la montagna dà. » Da un lato vorremmo dire che è bello morire una morte che suscita parole così sincere e forti come queste, e che Nardi e Ballard hanno incontrato un destino che certamente mettevano nel conto, e che le loro famiglie e i loro cari, allo stesso modo, avevano accettato (sia pure, come si vede, non senza protestare). Dall' altro, dobbiamo avere la durezza di domandare: a cosa serve morire così? Può un' impresa sportiva, per quanto audace e adrenalinica, giustificare il fatto che un bambino, che non ha ancora un anno, perda il padre, e una moglie il marito, e poi il vuoto creato in tutti gli altri affetti, ai quali non resta che aggrapparsi al ricordo delle imprese riuscite e dei giorni normali, felici, trascorsi insieme? Non c' è forse un egoismo esagerato in chi, seguendo una passione evidentemente dominante, lascia nell' angoscia tutti quelli che gli vogliono bene, come in una sorta di roulette russa? Quando la valanga spazza vie quelle minuscole vite che si arrampicano sul versante di una montagna, è giusto semplicemente dire: «La montagna prende, la montagna dà» come se quel fatale incidente fosse un evento imponderabile, una sciagura imprevedibile, quando invece è proprio questo azzardo, questo sfidare la morte nel modo più aperto (molto più che in ogni altro sport, per quanto pericoloso) a conferire tanto magnetismo, tanto fascino a questo tipo di alpinismo? La portata della sfida alla morte è ben esemplificata dal fatto che i corpi di Nardi e Ballard resteranno lì, dove sono stati individuati. Le condizioni meteorologiche, il rischio di altre valanghe non consentono di recuperarli. Come per altre disgrazie analoghe, si tenterà di raggiungerli quando il clima sarà più mite, forse tra mesi, forse tra anni (il corpo di Günther Messner, fratello minore di Reinhold, anche lui travolto da una valanga sul Nanga Parbat, venne ritrovato trentacinque anni dopo), e anche quella non sarà un' impresa facile. Il dilemma dunque è questo, se abbia senso abbracciare un' esistenza anomala, avventurosa, dove la sfida alla montagna è in realtà, mascherata, una sfida alla morte, e se questa sfida abbia un valore ulteriore, come pare intendesse Nardi, che nel suo messaggio al figlio usa appassionati toni pacifisti, oppure se una vita del genere sia in realtà sottomessa a un' illusione folle, a un delirio di onnipotenza che andrebbe disinnescato al suo primo affacciarsi. Crediamo che il rimprovero amaro e dignitoso della fidanzata di Ballard esprima appieno questa duplice visione delle cose. Io accetto che tu rischi la vita, ma poi non posso, quando la disgrazia accade, restare indifferente perché quel rischio era calcolato. Una morte non è mai un rischio calcolato. Di certo c' è che questi uomini sono in buona fede, non attaccano le montagne per esibizionismo o sete di successo, è davvero un grande amore per la natura nei suoi paesaggi più sublimi e terrificanti a muoverli. Eppure c' è qualcosa di smisurato, di eccessivo, di ingiusto nei loro cuori, e nelle loro morti, che ci riempie di tristezza e di sgomento. di Giordano Tedoldi

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