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Fenomeni in campo, brocchi dietro alla scrivania: non solo Magic Jonhson, qui tutti i nomi

Davide Locano
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Earvin Johnson sul campo da basket faceva magie. Per questo era diventato per tutti "Magic", un appellativo che non si è scrollato di dosso nei difficili anni della lotta contro l' Hiv e a fine carriera, nella vita e negli affari (possiede i Dodgers di baseball, tanto per capirci). Aveva promesso di stupire anche da presidente dei Los Angeles Lakers riportando ai vertici la franchigia californiana in tre anni, ma si è dimesso ieri dopo il clamoroso flop della sua seconda stagione al timone. Un fallimento che fa da monito a tutti i campioni o ex campioni: il talento nel gioco non garantisce successi né in panchina né tantomeno lontano dal campo, soprattutto in ruoli operativi che prevedano una scrivania al posto della lavagna tattica. Eppure un bel trucco Johnson l' aveva sfoderato l' estate scorsa, portando a Los Angeles LeBron James con un quadriennale da 154 milioni di dollari. The King sembrava la stella che mancava per riportare al successo i Lakers: aveva promesso di farcela in tre anni. GLI ERRORI DI MERCATO É finita con LA ancora fuori dai playoff come sempre accaduto dal 2013/14 e LeBron in vacanza anticipata per la prima volta da 14 stagioni. Il disastro sportivo, le tensioni con la proprietaria Jeanie Buss e la discussa scelta di Rob Pelinka, ex agente di Kobe Bryant, come suo braccio destro hanno portato alla rottura dopo una stagione di evidenti errori gestionali. Su tutti c' è stata la cocciuta - e inutile - rincorsa ad Anthony Davis dei Pelicans sul mercato di riparazione che gli ha messo contro tutto lo spogliatoio, già in rotta con l' ingombrante LeBron. E così il prossimo mercato, che doveva essere quello della ciliegina sulla torta, sarà una sorta di nuovo anno zero. «È difficile compiere un passo del genere quando il rapporto con il club è quarantennale come nel mio caso con i Lakers», ha spiegato Magic che della squadra in passato è stato giocatore, allenatore e co-proprietario. Ma non mi divertivo più con il basket, anzi, a dirla tutta non ero più io». Parole che ricordano in qualche modo quelle di Francesco Totti in una recente intervista a BeIn Sports dopo la bufera degli addii di Di Francesco e Monchi alla Roma: «Da giocatore riuscivi sempre a trovare qualche guizzo all' improvviso, il ruolo da dirigente è diverso perché è più difficile», ha detto l' ex numero 10. «Vado a Trigoria tutti i giorni, vivo lo spogliatoio come un calciatore. I rapporti con i giocatori, l' allenatore, vado in ritiro con la squadra. Da quel punto di vista non mi manca niente, la cosa che mi manca veramente è spogliarmi la domenica». E mentre si parla di un ruolo più importante del Pupone nel futuro dei giallorossi, a Milano i tifosi si interrogano da tempo sul ruolo di due ex bandiere. Dalla parte interista parte c' è Javier Zanetti, mancato protagonista della vicenda-Icardi. Da quella rossonera ovviamente si parla di Paolo Maldini, spalla di Leonardo, che molti vorrebbero più esposto anche dal punto di vista mediatico. ANTOGNONI E BAGGIO E non mancano altri esempi come quello di Giancarlo Antognoni in Fiorentina allo sbando tra un comunicato e l' altro (ieri l' ennesimo contro l' ex allenatore Pioli) con il ruolo di club manager. Lo stesso incarico lo riveste Angelo Peruzzi nella Lazio che fatica a fare il salto di maturità. E come si fa a dimenticare il clamoroso flop di Gianni Rivera da vicepresidente del Milan all' inizio degli anni '80 o il buco nero dell' avventura di Roberto Baggio alla guida del Settore tecnico della Figc («non mi hanno fatto lavorare. Il mio progetto è stato ignorato», fu l' addio polemico del Codino)? I migliori risultati, dunque, li ha ottenuti finora Pavel Nedved. Al ceco, però, non è ancora riuscito di sconfiggere il tabù della sua carriera da sportivo, la conquista della Champions League: «Vincerla da dirigente sarebbe meraviglioso, diciamo che poi potrei riposare in pace», ha detto poche settimane fa. di Francesco Perugini

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