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Beppe Signori, "i miei dieci anni all'inferno: mi sono sentito come Tortora"

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Leonardo Iannacci
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Beppe è tornato a sorridere. Quando lo incontravamo per le vie di Bologna, con le spalle ricurve, lo sguardo liquido, il passo lento, non era la freccia che avevamo visto segnare 188 gol in serie A, vincere tre classifiche dei cannonieri e sfiorare il mondiale a Usa '94. Era un'altra persona, piegata da accuse infamanti: associazione a delinquere nell'ambito delle scommesse clandestine nel calcio. Oggi Beppe è un uomo nuovo: assolto perché il fatto non sussiste, scampato a quell'inferno, riabilitato dalla Federcalcio, è tornato a fianco della moglie Tina e dei suoi cinque figli. In questi giorni l'ex bomberissimo di Foggia, Lazio e Bologna (e della Nazionale) sta curando l'uscita della biografia "Fuorigioco" (Sperling&Kupfer) e di un docu-film che andrà in onda su Sky.

 

 

 

Beppe, la tua vicenda giudiziaria ci ha ricordato quella di un'altra vittima della malagiustizia: Enzo Tortora. Accusato, rovinato, infine assolto.

«Hai ragione, Tortora subì l'onta del carcere, io degli arresti domiciliari. La sua Odissea durò 5 anni, la mia il doppio: 360 mesi durante i quali non ho vissuto e ho visto in faccia la morte, nel 2019, a causa di un'embolia polmonare».

Nel libro, dove i flash-back della vicenda si alternano col racconto della tua carriera, non sono pochi i resoconti processuali relativi all'inferno legale nel quale eri precipitato.

«Sono stato additato per anni come il boss di un'organizzazione internazionale che operava nel mondo delle scommesse. Vi rendete conto? E tutto perché un innocente bigliettino con il risultato di Atalanta-Piacenza, non scritto da me per combinare la partita, è stato scovato dagli inquirenti in casa mia. Nella vicenda di Tortora trovarono il suo nome sul taccuino di un pentito e fu considerata una prova contro di lui. Il parallelismo è pazzesco».

Tortora e Signori, assolti entrambi in modo pieno. Cosa aggiungere?

«Tra i 134 imputati dell'inchiesta, il sottoscritto è stato l'unico a non essere mai stato interrogato dal giudice, non ho mai capito il motivo. E nelle 80.000 intercettazioni dell'inchiesta il cognome Signori non appare. Ero innocente fino al midollo ma non per chi mi accusava. Devo tutto alla mia avvocatessa, Patrizia Brandi. Un giorno mi consigliò: non ricorreremo alla prescrizione nei processi di Modena e Piacenza, sarebbe una prova provata che cerchi una scappatoia e resterebbero dubbi su di te. Andiamo fino in fondo e avrai l'assoluzione piena. Così è stato».

Dieci anni durante i quali non hai potuto urlare la tua rabbia.

«Ero frustrato e depresso, avvolto da quell'impotenza che si prova quando il processo mediatico, silenziandoti, ha già deciso che sei colpevole».

Un processo così lungo equivale a un pezzo di vita che se ne va?

«Certamente. Avevo mia moglie Tina accanto ma devo chiedere scusa soprattutto ai miei cinque figli. In quegli anni sono stato egoista, ero in un baratro e ho pensato poco a loro».

 

 

 

Chi ti è stato vicino?

«I miei vecchi tifosi e molti amici del calcio, da Zoff a Zeman, da Casiraghi a Baggino... Molti, non tutti. Non chiedermi però chi mi ha deluso, quelle persone non esistono più per me».

Parliamo di calcio, ti va? Zeman: un genio o...?

«Sportivamente parlando, un genio. Con il 4-3-3 mi ha lanciato a Foggia e nella Lazio. E poi è una persona divertente a telecamere spente».

Sacchi, un maniaco del 4-4-2, invece?

«Insieme a Zeman ha cambiato il calcio. Arrigo allenando campioni e costruendo la squadra dalla difesa, Zeman dall'attacco».

Mondiali 1994: ti rifiuti di giocare la finale con il Brasile, perché?

«Quello resta il grande rimpianto della mia vita sportiva. Ero sfinito, dissi a Sacchi, sbagliando: "Gioco ma da punta, non più da esterno come nelle altre partite". Mi guardò basito. Risultato: ho osservato la sequenza dei penalty dalla panchina. Non ho giocato un minuto e, nella Lazio, ero un rigorista...».

Beppe, chi vince lo scudetto quest' anno?

«Milan, farà l'impresa».

C'è un altro Signori?

«Considerando che essere mancini è un plus, dico Dybala e Vlahovic».

A fine mese l'Italia si gioca l'ultimo jolly nei playoff per i mondiali. Ce la facciamo?

«Io dico di sì. E gli uomini decisivi saranno Immobile e, soprattutto, Berardi».

Oggi che uomo sei, Beppe?

«Più vecchio e segnato da quel terribile 1 giugno 2011, giorno in cui i carabinieri vennero a prendermi alla stazione Termini. Mi crollò il mondo addosso. Vorrei allenare, soprattutto in un settore giovanile. Ma una cosa l'ho imparata: perde solo chi si arrende. L'importante è uscire in tempo dal fuorigioco».

 

 

 

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