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Euro 2024, Italo Cucci e il flop della Nazionale di Spalletti: "Un ammutinamento mai visto"

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Prezioso testimone del tempo, Italo Cucci è stato Direttorissimo e inviato speciale in mezzo secolo della storia e della gloria azzurra. Andando-vedendo-incontrando-raccontando ha vissuto da vicino giorni entusiasmanti per la nostra nazionale e altrettante disgrazie. Tuttora basìto per la partita (non) giocata contro gli svizzeri, si abbandona per Libero ai ricordi. Quelli malinconici, perlomeno, visto quel che impone la cronaca delle ultime ore.

Da quale disgrazia calcistica vuol partire? 
«Dai mondiali del 1950, ero ancora un bambino e mi raccontarono che quel doloroso ko arrivò in modo comico: per paura dei viaggi aerei, visto che la tragedia di Superga era ancora fresca, la nazionale si trasferì in Brasile in piroscafo. Fu un viaggio infinito, gli azzurri si allenavano sul ponte di comando della nave e tutti i palloni finirono in mare. Ai mondiali perdemmo con la Svezia e tornammo subito a casa».
Il primo ko azzurro vissuto dal vivo? 
«Al mondiale in Cile ’62. Ero là come giovane inviato e, causa un paio di articoli disgraziati vergati da due colleghi italiani contro il Cile, ce la fecero pagare in campo. L’arbitro Aston fischiò a senso unico nella sfida con i cileni. Ci picchiarono anche, finì 2-0 per loro e addio speranze».

 

 

 


Inghilterra 1966: l’anno della famigerata Corea, madre di tutti i flop. 
«Era la partita decisiva per passare ai quarti, Fabbri mandò il vice, Valcareggi, a spiare gli allenamenti dei coreani. “Si muovono come Ridolini”, sentenziò Ferruccio. Si infortunò subito Bulgarelli e giocammo in dieci perché non erano state ancora introdotte le sostituzioni. Trafitti da una saettata di Pak Doo-ik, tornammo a casa presi a pomodori».
Saltiamo il 1970? 
«Arrivammo secondi dietro il grande Brasile ma tra le polemiche: Gianni Brera, che tifava Inter, e altre influenze politiche portarono all’incredibile staffetta fra Mazzola e Rivera. Una follia. Nella finale dell’Azteca Pelè stesso rimase stupito nel vedere Rivera, Pallone d’Oro, in panchina».
Nel 1974, con il tonfo ai mondiali tedeschi, si sviluppò il concetto di Azzurro tenebra. 
«Era la nazionale dei messicani ormai stanchi e un po’ logori: Rivera, Riva, Mazzola, Facchetti, Burgnich. In più lo spogliatoio era diviso in clan. Si sparse la voce che alcuni azzurri cercarono di comprare il pareggio contro la Polonia per qualificarsi ma Artemio Franchi, presidente della federcalcio, mi giurò che non era vero».

 

 

 


Nel 1986 altro ko: Bearzot visse un momento di debolezza e affondò con i suoi cavalieri che avevano fatto l’impresa a Spagna ’82. 
«Dopo quel trionfo suggerii a Enzo: lascia, accetta l’offerta che ti è arrivata dalla nazionale degli Emirati Arabi. Ma Bearzot, friulano romantico e testardo, non mollò gli azzurri. Negli ottavi con la Francia fece marcare Platini da Baresi, purtroppo era Beppe e non Franco: 2-0 per i transalpini».
Andò meglio nel 1990 (terzi) e nel 1994 (secondi). No? 
«Nel 1990 giocammo in trasferta a Napoli, dove tifavano Maradona e l’Argentina, e perdemmo per una papera di Zenga. Quattro anni dopo arrivammo secondi perché Baggino, dolorante, sbagliò il rigore decisivo per via delle sue condizioni fisiche non perfette. Fu costretto a giocare per spinte degli sponsor».
Al mondiale 2002 subimmo una rapina a fischietto armato, vero? 
«Prima di quei mondiali mi recai in Corea e incontrai il potentato locale che teneva le redini della manifestazione. Capii subito che aria tirava. Nella sfida con i padroni di casa l’arbitro Moreno ci fece fuori in modo vergognoso. Fu la seconda Corea della nostra storia. La prima del 1966 ce l’eravamo meritata, quella lì la subimmo».

 

 

 


In Sudafrica iniziò l’attuale periodo nero della nostra nazionale. Cosa ricorda del 2010? 
«La convinzione che maturai su Lippi. Non bisogna mai tornare sul luogo del trionfo, così come aveva fatto Bearzot nel 1986. L’unico grande allenatore che è riuscito a vincere due mondiali, e di seguito, con la nazionale è stato Vittorio Pozzo: nel 1934 e nel 1938».
Da allora abbiamo vinto un solo Europeo, nel 2021, ma ne abbiamo persi tre. Poi subito fuori in due mondiali e non ci siamo qualificati in altre due occasioni. 
«In quel 2010 ho deciso di chiudere la mia lunga storia di inviato ai mondiali e agli Europei, quasi presagissi quello che stava accadendo alla nostra amata nazionale».
A mente fredda, che idea si è fatto del crollo con la Svizzera? 
«Che è stato quasi un ammutinamento verso tutto e verso tutti. Non ho mai visto una squadra azzurra giocare, anzi non giocare, in quel modo. A parte Donnarumma e Calafiori, chi salvare? Nessuno».
Tantomeno Spalletti? Oppure le concede delle attenuanti? 
«La convinzione è sempre la stessa: non si può allenare la nazionale con la mentalità e la strategia di un tecnico da club».
Rimedi? 
«Affidare la squadra non a un allenatore che viene dal campionato e che pretende tempo per stare con i giocatori e per imporre le proprie idee. Bisogna mettere alla guida degli azzurri un selezionatore. Una persona che provenga dai quadri federali e che sia in grado di guidare la nazionale in pochi giorni. Che selezioni, non che alleni».
Bearzot veniva dai quadri federali... 
«Anche Valcareggi. E, caso strano, uno ha vinto un mondiale e l’altro un Europeo».
Ci sono pochi giocatori italiani che giocano nelle squadre di club, un disco che stanno mettendo su in molti. 
«In parte è vero ma le nostre meravigliose nazionali giovanili, la Under 17 e la Under 19, stanno ottenendo successi».
Il talento della speranza al quale appigliarci? 
«Francesco Camarda, mi dicono abbia segnato 483 gol nelle giovanili del Milan e nelle altre squadre in cui ha giocato. Ha 16 anni ma ricordo che a quell’età debuttarono in nazionale Renzo Vecchi, detto il Figlio di Dio, e Gianni Rivera, detto il Golden Boy».

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