Nei meandri dello stadio San Siro, pochi minuti dopo la fine di Inter -Barcellona 4-3, l’aria è ancora tesa e frizzantina: i giocatori blaugrana sfilano davanti alle telecamere a capo chino, scortati da Uffici Stampa che paiono guardie del corpo. Nei corridoi si sentono i rumori dei tacchetti che graffiano il cemento, le grida di chi può godere e gli accidenti di chi ha perso. I giornalisti, ovvio, allungano le orecchie. Passa Simone Inzaghi, è ancora in trance agonostica, ci guarda e dice «bravi, grazie». Rispondiamo «prego, anche tu sei stato abbastanza bravo». Sorride e si concede alle interviste di rito, quelle in cui inesorabilmente da 4 anni celebra “loro” (i suoi ragazzi), al limite dice “noi”, ma mai e poi mai si concede un “io” (lo fa solo quando si tratta di prendersi le colpe per una partita finita male).
Poi è il turno di Sommer, uno degli eroi della serata. I media lo bramano, ma ha lo sguardo sereno e timido di chi eviterebbe volentieri la grancassa. Dice «grazie», abbassa lo sguardo, lo vedi che pensa «ho respinto dei palloni, mica ho scoperto la penicillina». Darmian sfila via veloce e allora osiamo: «Ué, Matteo...». Si gira, torna indietro, chiacchiera 5 minuti come se fosse al bar davanti al caffè, pacatissimo. Noi: «Ma cosa ci faceva Acerbi nell’area del Barça?». Lui: «Non lo sappiamo neanche noi, ci ha detto “vado” ed è andato». Matteo, Francesco, Yann... 108 anni in 3, l’esperienza di chi non ha bisogno della “maestra” che gli dice come si attraversa la strada, sanno già cosa va fatto, soprattutto nei momenti decisivi.
A Bastoni diciamo «ué, Basto, quel giallo preso per fallo tatticissimo su Yamal al minuto 118 ci ha elettrizzato». E lo capisci in un attimo che ha elettrizzato pure lui, una cosa del tipo «Ragazzino, sei davvero fortissimo, ma questa sera ti devi arrendere». E poi Lautaro, sguardo fiero e pacche per tutti, e Dimarco, con ancora l’adrenalina in circolo e la voglia nemmeno troppo nascosta di togliersi qualche sassolino dalla scarpa, ché al giorno d’oggi se sbagli anche solo mezza partita ti danno del bollito non più utile alla causa. Mormora qualcosa tra i denti ma sa che il Gioco non è ancora terminato e manca il mostro finale. Meglio abbozzare.
Ecco, quello che accade sul campo può variare in base al fato (cosa staremmo scrivendo orase il tiro di Yamal al 92’ invece di stamparsi sul palo fosse finito dentro? L’opposto delle celebrazioni che leggiamo in queste ore), ma i princìpi che governano un gruppo no, quelli non variano a seconda di un risultato: l’Inter di Simone Inzaghi è una squadra forte nella mente molto più che nei piedi, è composta da uomini prima ancora che da calciatori. E uno si sente legato a quell’altro. E nessuno lascia indietro nessuno. E l’esigenza del singolo è importante nella misura in cui non intacca l’unità d’intenti. Per informazioni chiedere a Stefan de Vrij, difensore olandese: sarebbe titolare ovunque, non sbaglia un intervento da mesi, gioca solo spezzoni, non ha mai detto “beh”. E questo perché l’Inter non ha bisogno di “beh”, ha bisogno di tutti.