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I big della finanza tifano guerra. Il 2016? Sarà l'anno del terrore

Giovanni Ruggiero
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Il petrolio a buon prezzo? Non è un buon affare, nemmeno per l' economia di un Paese importatore di greggio come l' Italia. Ma una fase di grande incertezza e volatilità segnata dai venti di guerra tra Iran e Iraq può essere una minaccia fatale. O forse no, insinuano gli esperti di Market Watch: la crisi dei prezzi del greggio potrebbe avere effetti devastanti per tutti. E in questo senso anche la «pace», o un più modesto armistizio, può avere effetti destabilizzanti pari all' attuale incertezza. Proviamo a spiegare perché. 1. Dopo un braccio di ferro sui prezzi che dura da più di mesi anche il colosso saudita sta perdendo colpi. Una settimana fa, per la prima volta, Riad ha annunciato una finanziaria «lacrime e sangue»: tra tagli e maggiori entrate lo Stato assorbirà 98 miliardi di dollari, una scelta che arriva dopo la decisione di collocare sui mercati internazionali bond per oltre 25 miliardi, una soluzione inedita per un Paese che fino a pochi fa è stato uno dei maggiori prestatori sulle piazze finanziarie. Problemi analoghi colpiscono ormai altri Stati e Fondi sovrani. 2. Che accadrà nel caso la crisi dei prezzi continui? Difficile che l' Arabia Saudita intenda imporre ai suoi cittadini i costi dell' austerità che potrebbe sfociare in rivolte sanguinose e mettere a repentaglio la stabilità. Finora, del resto, sia l' Arabia che il Bahrein e gli altri Stati del golfo hanno evitato provvedimenti impopolari limitando gli aumenti agli enti pubblici ed alle società petrolifere. Ma basterà? Un fondo sovrano potrebbe liquidare gli asset accumulati negli ultimi anni. Per uno Stato è più facile attingere alla liquidità del proprio fondo sovrano che tagliare i salari dei dipendenti pubblici. In tutto i fondi sovrani hanno asset del valore di circa 3.400 miliardi di dollari. Se i guai di un Paese dovessero aggravarsi a causa di nuovi ribassi dei prezzi del petrolio, un Fondo sovrano potrebbe tentare di far cassa cercando di vendere i beni accumulati in Europa e Usa. Operazione comunque complicata e dai riflessi catastrofici per i mercati azionari. 3. La soluzione maestra, viene da dire, passa dalla pace. O comunque dall' accordo tra i sauditi e i loro satelliti con l' Iran che rivendica la volontà di aumentare la produzione di mezzo milione di barili al giorno. Ma attenzione, continua l' analisi di Market Watch, la fine della carneficina in Siria potrebbe provocare «effetti collaterali» indesiderati. Il prezzo del petrolio, vista l' attuale prevalenza dell' offerta sulla domanda dei consumatori (almeno 3 milioni di barili nei prossimi mesi) potrebbe crollare fino a 10 dollari al barile, portando sull' orlo della bancarotta molti Paesi produttori e riducendo drasticamente i profitti dei gruppi petroliferi. 4. La sola ipotesi del greggio a 10 dollari toglie il sonno ai produttori dello shale oil Usa. Ma anche a molti banchieri e operatori di Wall Street. Per non parlare dei gestori di hedge fund. Nel 2015 i produttori Usa hanno stretto i denti reggendo, pur con molta fatica al pressing dell' Arabia saudita. I più forti, come Pioneer Natural Resources, si sono difesi dal tracollo delle quotazioni ricorrendo a contratti di protezione. Ma l' operazione è troppo costosa per poter proseguire nel 2016 nel caso continui la frana dei prezzi. 5. A differenza dei pozzi tradizionali, che richiedono ingenti investimenti per periodi lunghi, i giacimenti di shale oil sono assai più flessibili e si possono riattivare i tempi brevi. Ma lo stesso non vale per la montagna di bond emessi dalle società che rischiano di attivare default di proporzioni bibliche. 7. Insomma, l' attuale crisi rischia di destabilizzare i portafogli finanziari ad Ovest come i bilanci dei produttori ad Est. E i Paesi consumatori sono alle prese on l' effetto boomerang. L' Italia deve registrare le difficoltà in uno dei settori trainanti (Saipem, Tenaris, Trevi per non parlare dell' Eni) ma anche la caduta della domanda per il made in Italy in Russia e Brasile. Ugo Bertone

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