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De Benedetti, quando la Cassazione gli cancellò due condanne per un cavillo

Carlo De Benedetti

Nel 1998 i giudici salvarono l'Ingegnere dalla bancarotta fraudolenta: era uscito dal crac dell'Ambrosiano con 30 miliardi di plusvalenze

Giulio Bucchi
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Uno dice: la legge è uguale per tutti. Ma c'è modo e modo di interpretare la cosa. E c'è modo e modo di accogliere le sentenze, soprattutto se definitive. Se per  il Cavaliere il primo agosto 2013 - conferma dalla Cassazione della condanna per i diritti Mediaset a quattro anni (più cinque di interdizione dai pubblici uffici) -  è il giorno nero, per il suo antagonista di sempre, l'Ingegnere, il 22 aprile '98, ultimi scorci del governo Prodi, è stato un giorno di festa. Sempre i giudici supremi – a lui e solo a lui – hanno cancellato le due precedenti condanne per bancarotta fraudolenta (6 anni e 4 mesi in primo grado, 4 anni e 6 mesi in secondo). La storia è quella del suo oscuro passaggio nella vicenda ancora, dopo trent'anni dal crack, oscurissima del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.  Piccolo riassunto. Quando il Banco era ormai sull'orlo del disastro Carlo De Benedetti entrò come vicepresidente e azionista il 19 novembre dell'81 e ne uscì 65 giorni dopo, il 22 gennaio '82, con 81 miliardi 470 milioni di lire. Un miliardo 253 milioni al giorno. Un record. L'Ingegnere riebbe i 51,4 miliardi con cui aveva pagato – virtualmente, solo virtualmente – il 2 % di azioni Ambrosiano più 2,5 miliardi per  interessi e spese. E, incredibile, Calvi gli versò anche 27 miliardi cash per le “emittende” azioni Brioschi, titoli cioè che ancora non esistevano.  De Benedetti intascò una plusvalenza di 30 miliardi. Almeno.    Ma come mai tanta generosità da parte dello spregiudicato, cinico  Calvi, il «banchiere dagli occhi di ghiaccio»? L'Ingegnere ha alternato due versioni: era stata un'offerta di Calvi e lui non aveva potuto rifiutare, versione ripetuta dalle prime firme di Repubblica, come Peppino Turani. Lo vedremo nella prossima puntata. Dall'altra parte, De Benedetti ha sempre respinto le accuse con “amarezza”:  «È noto a tutti che mi sono sempre mosso con determinazione nel tentativo di oppormi all'opaca gestione dell' Ambrosiano e che non  ho mancato a nessuno dei miei doveri. Né io né le mie società abbiamo del resto guadagnato una lira e nemmeno il Banco ha perso una lira …». Ecco, almeno quest'ultima parte è opinabile.  Secondo il Tribunale di Milano e poi la Corte d'appello era stato il prezzo del silenzio pagato da un Calvi ormai terrorizzato.  Il Tribunale di Milano il 16 aprile '92 ha condannato l'Ingegnere a 6 anni e 4 mesi per bancarotta fraudolenta.  La sua posizione era diversa da quella dei compiutati. Comunque fu condannato con i comprimari e protagonisti dell'assalto all'Ambrosiano, dal capo della P2 Licio Gelli, al banchiere Umberto Ortolani, Flavio Carboni, Francesco Pazienza, l'imprenditore Giuseppe Ciarrapico. Verdetto confermato il 16 giugno '96 dalla Corte d' Appello di Milano, con le pene diminuite, 4 anni e 6 mesi a De Benedetti, “perché non devono essere afflittive”. Ma il 22 aprile '98 la V Sezione penale della Corte di Cassazione -  solo per lui, è bene ribadirlo - ha cancellato le due sentenze “senza rinvio” (cioè senza un nuovo processo): fine della storia. Per tutti gli altri condanne confermate. La Suprema corte non ha confutato i fatti, ovviamente. Ha passato un colpo di spugna sulla fedina penale dell'Ingegnere con una capriola sul filo del “tecnicismo”: per «precluso esercizio dell'azione penale in relazione alla bancarotta». Per capire le motivazioni, bisogna addentrarsi nell'iter giudiziario, un po' noioso e con anomalie. Il 24 settembre '82 la procura di Milano invia all'Ingegnere, come a tutti gli altri personaggi coinvolti, una comunicazione giudiziaria per la bancarotta dell'Ambrosiano. Al giudice istruttore l'Ingegnere spiega che non gli «è mai stato permesso di amministrare l'Ambrosiano», gli è sempre stato impedito «di avviare l'opera di pulizia». Diciamo che con lui non viene usato il pugno di ferro. Dopo quattro anni, superando non pochi ostacoli e contrapposizioni dei suoi colleghi, il sostituto procuratore Luigi Dall'Osso, che sembra essersi fatto un'idea precisa di come sono andate le cose, il 31 marzo 1987 chiede un mandato di comparizione per De Benedetti, perché «avvalendosi dell'intimidazione da lui esercitata su Calvi» lo aveva indotto a pagargli quella buonuscita faraonica in quanto «un'ulteriore sua permanenza nel consiglio d'amministrazione del Banco Ambrosiano, avrebbe comportato la scoperta dell'occulto meccanismo e del dissesto del Banco». Art. 629 del codice penale, estorsione. Parola pesante.  Il giudice istruttore si limita a inviare una nuova comunicazione  giudiziaria a De Benedetti. Il quale al giudice il 1° giugno 1987 esclude «di avere usato intimidazioni o pressioni di alcun genere per ottenere quello che gli era stato riconosciuto». Ma quale estorsione! Il giudice istruttore quindi restituisce le carte al sostituto procuratore «per le ulteriori valutazioni». «Vedi, De Benedetti è venuto e ha spiegato tutto». Dall'Osso però l'8 novembre '87 insiste, oltre a chiedere un supplemento d'indagine per accertare se De Benedetti sapesse da dove venivano quei soldi e, solo in quel caso, contestargli anche il reato di concorso in bancarotta.  E qui avviene qualcosa di insolito. Il 7 aprile 1989 il giudice, con un atto che sarà alla base della decisione della Cassazione, chiude l'istruttoria con un “provvedimento complesso”: proscioglie De Benedetti, perché il fatto non sussiste, dall'accusa di estorsione, dichiarando improponibile l'azione penale per il reato di bancarotta. Il pubblico ministero si oppone ma solo per il proscioglimento dal delitto di estorsione: lui all'accusa di bancarotta per De Benedetti nel crollo dell'Ambrosiano, non ha mai creduto. Nel frattempo, con il nuovo codice di procedura penale, la competenza della Sezione Istruttoria passa alla Corte d'appello. E il presidente della Corte d'Appello di Milano il 27 novembre 1990 credendo finalmente di sbrogliare l' aggrovigliatissima vicenda rinvia a giudizio l'Ingegnere per bancarotta. E su questa falsariga procederà il Tribunale che bada alla sostanza del reato, indipendentemente dalla configurazione giuridica, stabilendo «l'inscindibile collegamento» tra l'ipotesi dell'estorsione e la bancarotta: in sostanza, sia estorsione o bancarotta in ogni caso quegli 82 miliardi sono usciti dalle casse del Banco Ambrosiano, ormai sull'orlo del disastro, e sono finiti illecitamente nelle tasche dell'Ingegnere (pardon: della Cir, la holding del gruppo,  e della Finco, la cassaforte di famiglia, poi Cofide). Alla fine dei giochi, la Suprema Corte obietta: e no, cari signori, c'è una contraddizione in  termini: l'estorsione si pratica con l'uso della forza, obbligando a pagare, la bancarotta fraudolenta presuppone l'accordo tra i compari. Ragionamento discutibile, ma tant'è. Del resto De Benedetti è stato prosciolto in istruttoria dall'accusa di estorsione.  Per di più l'azione penale si è svolta sulla base di un'accusa – la bancarotta – mai contestata dal pubblico ministero. In sostanza, si perdoni la grossolanità della sintesi, l'Ingegnere viene assolto perché, per due processi, hanno sbagliato il reato da contestargli. Inutilmente Tomaso Staiti di Cudia, deputato del Msi, l'unico a martellare con un'infinità di interrogazioni sulla vicenda, ha continuato a chiedere: «Perché l'Ingegnere non andò, com'era suo dovere, a denunciare ciò che sapeva alla Procura della Repubblica?».  Ecco, perché? di Pierangelo Maurizio [email protected]

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