L'editoriale
di Giampaolo Pansa
Si erano dimenticati di dare un'occhiata al calendario del 2010. Parlo di quanti avevano creduto nel Partito dell'Amore e nel pappa e ciccia tra Silvio Berlusconi e Pierluigi Bersani. Se avessero tenuto conto di alcune date, si sarebbero accorti che tutte le promesse di volersi bene erano soltanto parole. O nel peggiore dei casi, bugie, propaganda, fumo negli occhi. Lo erano soprattutto le promesse del Cavaliere. Aveva bisogno di ritornare in pista dopo l'attentato presentandosi con una novità. E ha sfornato la teoria dell'Amore al posto di quella della Guerra. Ci siamo cascati un po' tutti nell'ennesimo trucco del Cavaliere. L'unico che forse non vi è cascato è proprio Bersani. Collaudato professionista della politica, il segretario del Partito Democratico il calendario del 2010 lo teneva ben aperto sulla scrivania. E come Berlusconi, sapeva che il primo impegno del nuovo anno sarebbero state le elezioni regionali. Ecco un tempo di guerra, non di pace. Infatti, la mossa del Cavaliere è stata di riaprire il dossier Giustizia. L'unico davvero importante per lui. Insieme alla promessa di una riforma fiscale da collocare non per l'indomani, ma in una fase successiva. Sia pure, così dicono, entro la fine di quest'anno. Con il calendario in mano, si può affermare che vedremo presto i due blocchi impegnati in un nuovo conflitto all'arma bianca. È una legge naturale alla quale nessuno può sfuggire. Quando sono in ballo le urne, l'unico obiettivo che conti è vincere. Ma per vincere, un partito o un blocco di partiti non deve lasciare per strada neanche un voto. E deve soprattutto tenersi stretti gli elettori (...) (...)più insofferenti, più critici, più estremisti. Sono loro che possono sfuggirgli, non i tifosi ragionevoli. Se questo è vero, come credo che sia, viene confermata una vecchia legge della politica. È di una chiarezza elementare: i partiti, e dunque i leader, sono sempre prigionieri della frazione più dura, ossia dei militanti antagonisti. La stessa legge vale per tutti i collettivi, a cominciare dai giornali. Guai a perdere i lettori più radicali, si rischia la catastrofe. Bisogna curarsi dei falchi, poiché le colombe ti seguono quasi sempre. La regola vale per Berlusconi che, di suo, è già un falco. Ma vale anche per Bersani. Di per sé, il segretario del Pd non sarebbe un falco. Però è costretto a farlo. Questo spiega, per esempio, la risposta immediata e negativa all'ipotesi di riformare il fisco sulla base di due sole aliquote. Bersani non avrebbe replicato in modo così sprezzante se non fosse stato incalzato dall'emergenza elettorale. Vincere o sparire Dunque è soprattutto lui a trovarsi con il fuoco alle calcagna. Bersani deve vincere a tutti i costi la battaglia di marzo. O almeno non deve perderla. Ha sott'occhio i risultati dell'ultima consultazione elettorale, quella europea del giugno 2009. E conosce la verità che Nicola Latorre, intelligente dalemiano, ha messo in chiaro in un'intervista al “Corriere della sera”: «Con i numeri delle europee, oggi vinceremmo soltanto in tre regioni». Bersani ha disperato bisogno di un successo. Ne ha bisogno per un complesso di motivi che non riguardano lui come persona, bensì la sua funzione attuale. Per cominciare, guida il Pd da poco tempo e non è ancora entrato del tutto nella parte del leader, almeno nell'immaginario del grande pubblico. Molti lo considerano ancora un colonnello di Max D'Alema. Mandato avanti dal generale che non voleva, o non poteva, ritornare alla guida del partito. Uno dei suoi primi atti è stato saggio. Bersani si è dotato di una cerchia di collaboratori giovani. Sono volti nuovi. Soltanto qualcuno di loro è conosciuto dagli addetti ai lavori. Di quasi tutti vanno ancora valutate le capacità. È possibile che si rivelino all'altezza del compito. Ma per rendercene conto, dovremo vederli all'opera. Poi c'è il problema della linea politica del Pd. Può essere soltanto quella dello scontro frontale con Berlusconi? Una risposta l'ho trovata su una fonte non certo vicina ai democratici: il settimanale “Tempi”, diretto da Luigi Amicone. Nell'ultimo numero del 2009, “Tempi” ha pubblicato una lunga intervista di Mattia Ferraresi a Filippo Penati, il braccio destro di Bersani, già presidente della Provincia di Milano e oggi sfidante di Roberto Formigoni nel voto regionale in Lombardia. Di Penati mi ha colpito questo passaggio: «Siamo nel 2009 e dovremmo essere qui a raccontare le cose strabilianti fatte nei primi tre anni del governo Prodi e non chiederci come cacciare Berlusconi. Il centrosinistra non fallisce sull'antiberlusconismo. Fallisce perché ha sbagliato la prova del governo e l'ha sbagliata clamorosamente per due volte. Soprattutto l'ultima, quando in pratica ogni sera litigavamo fra di noi nei telegiornali». Già, il litigio, la rissa interna, la lotta continua fra le diverse fazioni. Il centro-sinistra di Romano Prodi ne è uscito distrutto. Morto il suo governo, il virus si è insinuato dentro il corpo del Pd. Dopo l'elezione di Bersani, la calma sembrava tornata. Ma era soltanto un'illusione. Walter Veltroni e Dario Franceschini, i due ex segretari messi fuori gioco dai loro stessi errori, sono ritornati in campo. E hanno trovato un'alleata potente: Rosy Bindi, presidente dell'Assemblea nazionale del Pd. Di fatto, il terzetto ha formato una robusta corrente anti-Bersani. Che ha cominciato a muoversi senza riguardi per il vertice del partito. Con il risultato di confondere e indebolire gli stessi militanti. Durante la Prima Repubblica, ho raccontato per anni e anni le vicende della Democrazia Cristiana. Era il regno del correntismo. E di quello tosto, con il pugnale celato nel guanto di velluto. Ma la Balena Bianca possedeva un corpaccione indistruttibile. In grado di sopportare anche otto o nove correnti. Il giovane Pd non è altrettanto forte. Per finire, Bersani ha di fronte un rebus esistenziale. È il rapporto con l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Di questo problema ho già scritto su “Libero”. La mia opinione è che Bersani abbia il dovere di rompere con Tonino. L'ex pm non è un alleato, bensì un amico del giaguaro. Meglio ancora, è un cannibale politico con un unico programma: mangiarsi l'elettorato del Pd, boccone dopo boccone. Mi domando che cosa potrebbe accadere se Bersani perdesse le elezioni regionali. L'assalto dipietrista diventerebbe incontenibile. Con esiti che oggi possono sembrare scenari di fantapolitica. Vogliamo immaginarne uno? Il futuro di Tonino Come gli viene già chiesto da alcuni supporter eccellenti, Di Pietro scioglie l'Italia dei valori e fonda un nuovo movimento che accoglie a braccia aperte Walter, Dario e la Rosy, insieme alla schiera dei loro fedeli. Il leader del nuovo partito diventa la Bindi, la più sfrenata del trio ex-democratico. E come primo atto organizza un altro grande “No B day”. Dove questa volta la B non sta per Berlusconi, ma per Bersani. Se questo accadrà, il Cavaliere cercherà nelle cantine di Arcore il più costoso degli champagne. E brinderà insieme a tutti i suoi falchi. Con la certezza di restare al governo per un altro quindicennio. Sino alla soglia dei novant'anni. Sicuro di sé, pimpante e bello come il sole, grazie ai raffinati restauri. Alla faccia dei tanti Tartaglia che, nel mondo folle di Internet, lo vorrebbero morto e sepolto.