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L'editoriale

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di Vittorio Feltri

Giulio Bucchi
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Una festa non si nega a nessuno, figuriamoci alla cosiddetta patria, sostantivo fino ad alcuni anni fa all'Indice perché in contrasto con la grammatica dell'internazionalismo comunista. Nel 1961, dopo un secolo di unità d'Italia, non vi furono celebrazioni memorabili, solo qualche sbrigativo discorso ufficiale dentro e fuori Palazzo, e poco altro. A Torino inaugurarono una breve linea ferroviaria percorsa da un trenino che viaggiava a dieci metri dal suolo. Ignoro che fine abbia fatto la tratta; brutta, immagino, dato che la Frecciarossa (al top della tecnologia) mi risulta abbia le ruote a terra. Non ho ricordi più importanti del primo centenario che coincideva con i preparativi per cooptare i socialisti nella coalizione del governo a denominazione democristiana. Segno che il popolo e i suoi rappresentanti non organizzarono grandi cose per dare risalto all'evento. Oggi è diverso. L'inno del signor Mameli (che non morì affatto in battaglia, ma nel suo letto a causa di una infezione provocata dalla baionetta di un commilitone distratto) non è più considerato una mediocre marcetta bensì un capolavoro anche letterario meritevole dell'esegesi di Benigni. E se l'insigne e ricco comico toscano si è occupato di “Fratelli d'Italia” addirittura al festival di Sanremo, vera capitale della nazione, vuol dire che la canzoncina del ragazzo perito di setticemia (e nonostante ciò catapultato nel sacrario degli eroi) ha conquistato i cuori, di destra e di sinistra, e si è guadagnata un posto fisso nella hit parade canora. Bisogna prenderne atto. Se l'inno ha fatto irruzione nel teatro Ariston sul cavallo bianco di Roberto, non possono esserci dubbi: il sentimento patriottico ha sfondato sul piano musicale. Ma solamente su quello.  Massimo D'Azeglio pronunciò una frase da incidere nel marmo: l'Italia è fatta, adesso bisogna fare gli italiani. Mi permetto di correggere: abbiamo fatto gli italiani, ora facciamo l'Italia visto che è spaccata in due, Nord e Sud. Noi cittadini, dalle Alpi al canale di Sicilia, abbiamo un denominatore comune: bene o male, parliamo la stessa lingua (mescolata all'inglese), guardiamo la stessa tivù, indossiamo gli stessi orrendi jeans; è stata adottata anche in Valtellina e in Val Brembana la dieta mediterranea (negli anni Cinquanta a Bergamo la pizza non era ancora arrivata), i meridionali immigrati a Milano e dintorni si sono perfettamente integrati. Terroni e polentoni hanno all'incirca i medesimi gusti, si eguagliano nella quantità e nella qualità dei consumi, hanno abitudini simili. Quindi si può affermare che gli italiani ci sono non soltanto in occasione delle partite di calcio degli Azzurri; ci sono ogni giorno e ogni giorno che passa si assomigliano sempre di più. Le Italie invece no, sono due; e la lontananza l'una dall'altra aumenta anziché diminuire. Paradossalmente, sul finire dell'800 la Penisola era più omogenea forse perché alle prese con lo stesso dramma: la fame. Quello che è accaduto poi è oggetto di studi e di polemiche. Il Mezzogiorno si sente vittima e il Settentrione idem. Il primo perché fu defraudato dal secondo; il secondo perché non ha mai smesso di indennizzarlo. Chi abbia ragione e chi torto non si sa e dubito si possa sapere. Recentemente sono usciti due libri paradigmatici della divisione: Terroni di Pino Aprile e Polentoni di Lorenzo Del Boca in cui entrambe le tesi citate si avvalgono di convincenti argomentazioni. Il che dimostra quanto sia complessa la questione, difficile da dirimere. Sul punto non ci sarà presto un accordo; si continuerà a litigare finché le due Italie saranno separate da un divario economico tanto marcato. Il Nord marcia a ritmi tedeschi, mentre il Sud è immobile dal dopoguerra e non sono serviti a smuoverlo miliardi e miliardi di sovvenzioni. La sensazione è che il Mezzogiorno si sia rassegnato a una condizione di subalternità e miri non a crescere con le proprie forze, ma a conservare intatto il cordone ombelicale attraverso cui riceve finanziamenti dallo Stato. Non è un caso sia terrorizzato da pur remote ipotesi di secessione e perfino dal federalismo, interpretandolo come una prova generale di frattura. Da Roma in giù Bossi e la Lega sono considerati pazzi egoisti che pretendono di non dividere la torta. È evidente che questa è la semplificazione di una realtà assai complicata. Ma ridotto ai minimi termini, il problema è tutto qui. Le due Italie vanno in tandem però una sola di esse pedala, facendo doppia fatica per tenere una velocità comunque inferiore rispetto a quella di altri Paesi. Ovvio che in periodi di crisi, di salita - per rimanere alla metafora ciclistica - la Penisola sia in affanno e perda terreno. C'è un solo rimedio: costringere anche il Sud a pedalare. Sino a che ciò non avverrà, l'Italia non sarà unita e i cittadini, per quanto fratelli, non avranno il desiderio di festeggiarla. Non si festeggia con entusiasmo e autentica partecipazione una Unità che esiste soltanto nei libri di storia e nel libro dei sogni. Il resto è retorica e bassa speculazione politica.

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