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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Mi è capitato tra le mani un libretto stampato 45 anni fa. Autore: Mario Cervi. Titolo: La giustizia in Italia. Sottotitolo: Perché è così lenta, perché non risponde alle esigenze della nostra società. Lì dentro c'è già tutto ciò di cui si discute oggi. L'ex direttore del Giornale, avendo seguito alcuni importanti processi come quelli di Rina Fort e Fenaroli, capì con mezzo secolo di anticipo come mai i tribunali non funzionassero. Anche allora le relazioni del procuratore generale della Cassazione e di quelli delle corti d'appello  giuridiche ogni anno denunciavano le carenze del servizio. Già a quell'epoca il Consiglio superiore della magistratura prometteva indagini allo scopo di accertare le responsabilità. E gli avvocati, come oggi, protestavano. Niente è cambiato. Nemmeno la tendenza dei giudici ad autoassolversi da qualsiasi colpa per il mancato funzionamento della giustizia. La scarsa produttività in fatto di sentenze? Rivolgersi alla politica. Verdetti inutilmente prolissi, pieni di parole ma vuoti di prove? Il motivo sta nella giurisprudenza: se il giudice di merito è stringato, la Cassazione potrebbe tacciare d'insufficienza o di lacunosità. Vi domandate perché parlo di giustizia e per giunta di quella di cinquant'anni fa in un giorno in cui le notizie principali riguardano la guerra in Libia e la tenuta della maggioranza? Risposta semplice. Il libretto di Cervi lo avevo davanti agli occhi quando è giunta notizia che la Cassazione ha respinto la richiesta di arresto di alcuni scafisti accusati di immigrazione clandestina. Se lo fanno a tempo perso, è stata la motivazione dei supremi giudici, non c'è ragione di sbatterli in gattabuia. In pratica, violano la legge ma appena appena e dunque non bisogna essere i flessibili ma indulgenti. La Cassazione non è nuova a originali interpretazioni del codice. In passato fece scandalo una sentenza in cui si stabilì che è dubbia la violenza sessuale allorquando una donna indossa i jeans: significa che non si è opposta con tutta sé stessa al bruto. Un'altra fece obbligo a un padre di mantenere la figlia trentenne, sentenziando che gli alimenti sono per sempre e non fino a che l'erede è in grado di mantenersi. Addirittura i supremi giudici decisero che coltivare cannabis non è reato se le piantone non sono ancora giunte a maturazione e dunque essere usate per farne droga. Ovviamente non abbiamo motivo di dubitare che questi verdetti siano tutti ben argomentati e con le giuste citazioni del codice che autorizzano le toghe a mandare assolti gli accusati. Ma non è questo il punto. Nel paese delle duemila leggi è sempre possibile trovare il cavillo cui appendere una sentenza, nel pieno rispetto delle norme. La questione è che in questo modo si va contro la volontà del legislatore, il quale intende contrastare il fenomeno dell'immigrazione clandestina come quello della diffusione della droga. E soprattutto si va contro il senso comune.   Il sentimento dell'opinione pubblica non è materia che possa essere fissato dal codice penale e non ho difficoltà a riconoscerlo. Ma ogni tanto, viaggiando nell'universo chiuso delle loro aule di giustizia, con i loro riti e le loro prerogative, i magistrati - supremi o minimi- non paiono rendersi conto di cosa chiede loro il paese. Continua sui binari tracciati da sempre, gli stessi che Mario Cervi descrisse nel suo libro inchiesta, senza rendersi conto che il mondo è cambiato. Arroccati a difesa, facendosi scudo con i processi di Berlusconi, sperano così di conservare il loro potere.  Non si rendono conto che, come dice un mio amico con la toga, chi verrà dopo il Cavaliere sarà peggio di lui. Almeno per i giudici, con i quali vorrà arrivare a una resa dei conti rinviata da cinquant'anni.

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