Nel cuore di Belgrado, in un ospedale psichiatrico risparmiato dalla guerra, un gruppo di medici e pazienti fonda una repubblica. È la Repubblica di Lusitania: una comunità utopica nata nel 1915, mentre fuori il mondo implode sotto la stupidità e la violenza, al centro del primo romanzo di Dejan Atanacković, artista visivo e scrittore serbo, vincitore del Premio NIN, il più importante riconoscimento letterario del suo Paese, ora tradotto in italiano da Valentina Marconi per Bottega Errante Edizioni.
Atanacković, nato a Belgrado nel 1969 e da anni diviso tra la Serbia e Firenze, è un autore che attraversa i confini tra linguaggi: pittura, installazione, scrittura, attivismo. Nei suoi lavori - come nelle sue battaglie civili - arte e politica non si distinguono. Lusitania ne è la prova: un’opera visionaria che trasforma la storia di un manicomio in un manifesto. Il libro prende le mosse da un episodio reale: durante l’occupazione austro-tedesca, l’ospedale di Guberevac fu l’unica istituzione di Belgrado a non essere chiusa. Da questo fatto marginale nasce un’utopia: in un mondo devastato dalla guerra, un piccolo gruppo di folli e di medici decide di vivere in armonia, senza gerarchie, nel rispetto dell’altro e della ragione. Lì dove la società reclude e punisce, loro costruiscono una democrazia possibile, un esperimento politico che è anche un atto poetico.
La scrittura di Atanacković, asciutta e ipnotica, alterna il registro del documento storico alla vertigine allegorica. Il romanzo si apre come un trattato di psichiatria e si trasforma in un viaggio dentro l’immaginazione collettiva, dove i confini tra lucidità e delirio si dissolvono. Il dottor Dušan Stojimirović, figura realmente esistita, diventa il simbolo di una ragione etica e ribelle, contrapposta non alla follia - che è parte della condizione umana - ma alla stupidità, che ne è la degenerazione. “La stupidità è il contrario della ragione”, recita il coro dei pazienti in una delle scene più potenti del libro: una rappresentazione teatrale in cui uomini con maschere animali gridano le proprie accuse alla società.
Questa “zoologia morale” attraversa tutto il romanzo. Gli animali non sono metafore decorative, ma incarnazioni dell’alterità che l’uomo tenta di reprimere: l’animale in noi, come il folle, è ciò che la civiltà punisce per negare la propria paura. Atanacković, che da anni lavora sulle collezioni scientifiche del Museo di Storia Naturale di Firenze, intreccia nella narrazione i temi del corpo, della tassidermia, del rapporto tra vita e rappresentazione. È come se ogni vetrina del museo, ogni diorama, custodisse una domanda politica: chi decide cosa è umano e cosa no?
Dietro l’impianto allegorico, Lusitania è un atto di accusa contro l’uso politico della memoria. L’autore stesso, che ha partecipato alla vita politica di Belgrado come consigliere comunale e militante ambientalista, lega la sua finzione narrativa alla realtà di un Paese ancora prigioniero delle sue rimozioni. “La Serbia - dice - vive nella violenza della stupidità: un regime che ha sostituito la verità con la propaganda e la storia con la paura.” Il romanzo, allora, diventa una forma di resistenza estetica e civile, un modo di restituire parola a ciò che è stato sepolto.
C’è in Lusitania una memoria mitteleuropea - Musil, Canetti, Bruno Schulz - ma filtrata da uno sguardo balcanico e contemporaneo. Le sue città, da Belgrado a Firenze, non sono scenari ma stati mentali. Tutto è doppio: umano e bestiale, reale e visionario, lucido e folle. Perfino l’autore confessa di non saper più distinguere tra i personaggi nati dalla sua immaginazione e quelli realmente esistiti. È un corto circuito che diventa dichiarazione poetica: l’arte, come la follia, è il solo modo per sopravvivere alla stupidità del mondo.
Con Lusitania, Dejan Atanacković firma un romanzo totale, in cui la storia incontra la metafora e la politica si fa linguaggio. In un tempo in cui la stupidità torna ad avere il volto del potere, questa “repubblica dei folli” è una parabola di resistenza. Leggerla significa ricordare che l’unico modo per restare umani è accettare la nostra parte in ombra, quella che la società chiama follia, ma che forse è soltanto lucidità.




