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I soldati del Papa in guerra contro il Tricolore

In un saggio la storia dei volontari di Pio IX che, in nome della fede, lottarono contro l’Italia unita considerata anti-cattolica
di Alberto Frajamercoledì 15 ottobre 2025
I soldati del Papa in guerra contro il Tricolore

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«Poche ore prima di invadere lo Stato Pontificio, correva l’anno 1860, il generale Enrico Cialdini, capintesta degli assedianti piemontesi, rivolgendosi ai suoi uomini, descriveva così i combattenti del Papa: “Soldati, vi conduco contro una masnada di briachi stranieri che sete d’oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi. Combattere, disperdere inesorabilmente...».

Gli faceva eco il generale Manfredo Fanti che definiva l’esercito pontificio «bande straniere senza patria e senza tetto». Ora, certa vulgata storica ostinatamente risorgimentalista, dei militari che difesero lo Stato della Chiesa ha fornito nel tempo una descrizione che da quella dipinta da Cialdini (che uno stinco di santo non era, vedi alla voce massacro di Pontelandolfo) non si discosta punto. E invece così, almeno del tutto, non fu.

Prova a dimostrarlo Alfio Caruso nel suo I Mille di Pio IX (Diarkos, 352 pagine, 19 euro), saggio in cui l’autore svela come nel turbolento decennio che vide l’Italia unificarsi sotto il tricolore, un esercito composito e determinato impugnò le armi per difendere Pio IX e il potere temporale della Chiesa. Che i papalini avessero torto o ragione, è un altro paio di maniche. Di sicuro, a difendere Roma non si acconciò un’armata Brancaleone di ubriaconi, di mercenari, né di semplici avventurieri. A rischiare, e in tanti casi a rimetterci la ghirba, per difendere il Patrimonium Petri furono principi, conti, duchi e baroni provenienti da tutta Europa, affiancati da soldati olandesi, tedeschi, irlandesi e tanti italiani, uniti dalla fede e dall’ostilità verso la nuova Italia, che consideravano ormai preda della massoneria e nemica della tradizione cattolica.

Beninteso, a considerare una jattura l’annessione delle terre pontificie al neonato Stato italiano, furono «anche interessi assai banalmente pratici, diremmo venali. La nobiltà romana, per dire, avvertì immediatamente che oltre a stravolgere i capisaldi del moderatismo e le prerogative del trono e dell’altare, l’esercito “italiano” avrebbe polverizzato anche le rendite di posizioni acquisite nei secoli. Si sappia, al modo di esempio, che tra i più preoccupati risultava il principe Alessandro Torlonia, proprietario di un decimo (25 mila ettari) dell’immenso agro romano. Altrettanto vero è che ad opporsi ai piemontesi non furono dei crociati senza macchia e senza paura. Ci fu chi si arruolò per odio, chi per il soldo, come fecero diversi veterani tedeschi e olandesi. E tuttavia, nella maggioranza dei casi, la spinta ad imbracciare l’archibugio venne dalla fede. E, assieme a essa, «l’attaccamento alla persona del Santo Padre, le cui rigidezze dogmatiche così detestate dagli avversari rappresentavano il mastice dell’intransigenza cattolica» come spiega l’autore. Come che sia, è in questo clima che viene a costituirsi il nucleo indissolubile di fedelissimi del papa: un migliaio di uomini, che nel decennio concluso da Porta Pia, metterà in gioco la propria vita per difenderlo dall’Italia dei Savoia e di Garibaldi. E spesso, sottolinea Caruso, saranno migliori di coloro per i quali andranno a morire.

I mille di Pio IX, il pontefice che Peppino Garibaldi definiva «un metro cubo di letame» (quelle finesse...), vengono tutti inquadrati nei “tiragliatori”, trasformati dal primo gennaio 1861 nel battaglione degli zuavi, uomini di fegato che alla guerra dimostreranno di dare del tu. Quello che comunque impressiona dell’esercito pontificio è la sua composizione eterogenea. Forse per la prima volta nella storia il fabbro bavarese combatteva fianco a fianco con il conte francese, lo studente italiano con l’agricoltore irlandese, l’ex seminarista fiammingo con il cacciatore di bisonti statunitense. Nobili e popolino avevano trovato nella Fede e nella comune causa della difesa del potere temporale della Chiesa un collante così efficace da travalicare qualsiasi steccato sociale.

I due indiscussi protagonisti di questo burrascoso periodo furono il chiacchieratissimo segretario di Stato della Santa Sede, Giacomo Antonelli e il conte belga Francois-Xavier de Merode, creatore dell’armata pontificia. Accanto ad essi, si distinsero per abilità comandanti come Kanzler, De Courten, Allet, Azzanesi e Ungarelli, de Charette, gente che aveva maturato una lunga carriera nell’esercito pontificio.

I fatti andarono come andarono. Con la presa di Roma, l’Italia era completata. Eppure, ci fu chi, nel nome del Papa, se ne tenne distante. Il generale Hermann Kanzler, ottenuta la cittadinanza romana dopo Mentana e nominato barone da Leone XIII, visse a Roma con l’animo dell’ospite fino alla morte nel 1888. Il conte generale Raphael de Courten, accommiatatosi dai soldati con un commovente saluto a bordo della fregata Orenoque, si stabilì a Firenze dopo un breve soggiorno in Svizzera.

Il colonnello Achille Azzanesi, ingiuriato l’8 dicembre 1870 in piazza San Pietro mentre inneggiava a Pio IX durante le solenni funzioni in gloria dell’Immacolata Concezione, si ritirò a vita privata sentendosi straniero in casa. Il principe Alfonso Carlo di Borbone d’Austria-Este impegnò il proprio patrimonio in opere assistenziali e creando la Lega internazionale antiduellista. Alla firma dei Patti lateranensi nel 1929 annuncerà che mai più metterà piede a Roma. Prima di morire aderisce al golpe del generale Francisco Franco in Spagna. Il conte Filippo di Carpegna rifiuterà ripetutamente di entrare nell’esercito italiano.
Identico comportamento tenne il figlio Gustavo. Il tenente colonnello Odoardo Corbucci, respinta anch’egli la richiesta di arruolarsi nell’esercito, si dedicherà all’amministrazione della propria azienda agricola, alla creazione di cooperative cattoliche e a opere filantropiche.