Giovane come una rockstar, destinato a non invecchiare. Ma anche ossessionato dalla conquista precoce di una maturità che lo porterà ad essere testimone pressoché unico di un’idea tanto affascinante quanto, ad oggi, rimasta un autentico ossimoro sociale e politico: la rivoluzione liberale. Testata giornalistica divenuta simbolo dell’esistenza di Piero Gobetti, venuta meno a neppure venticinque anni. Morto giovane, in fuga per la libertà ma senza voler dare mai l’idea del fuggitivo, di chi scappa. Semmai di quel ragazzo dalla disperata vitalità che rincorre altrove la possibilità di dare concretezza alle proprie idee.
Paolo Di Paolo, a dodici anni dal successo del romanzo Mandami tanta vita che lo ha portato ad essere finalista, appena trentenne, del Premio Strega, oggi torna su quelle carte. O meglio sul cammino, forse mai del tutto interrotto, legato alle orme ancora incredibilmente vivide di quel giovane morto a Parigi quasi un secolo fa. E proprio la vigilia del centenario della scomparsa di Gobetti è l’occasione utile che Di Paolo ha voluto condividere con altri lettori per raccontare una storia allo specchio. Lo fa con un nuovo libro, appena pubblicato per i tipi della casa editrice Solferino. Il titolo è già da sé un manifesto. In copertina un’immagine di quel giovane esile ma indomabile che, a guardarlo bene, potrebbe somigliare addirittura a un avo di John Lennon.
E anche il titolo del nuovo saggio di Di Paolo, Un mondo nuovo tutti i giorni - Piero Gobetti una vita al presente, un po’, ci fa pensare all’autore dell’immortale Imagine. Che l’obiettivo sia quello di eternare, o meglio, leggere con chiavi eternamente attuali, parole, concetti e stati d’animo di Gobetti, lo si capisce tanto dall’introduzione quanto dalla conclusione del volume. Nelle prime pagine, infatti, l’autore romano che più di altri, in questi anni, si è fisicamente lanciato all’inseguimento della memoria dei grandi scrittori, quasi con gli occhi sognanti di un eterno ragazzino, ci sono le chiavi per entrare davvero a cuore aperto nell’opera. «Primo: non diventare cinici. Provare a non diventare mai come gli adulti. O almeno: come certi adulti. Quelli che alzano le spalle e sorridono di fronte agli entusiasmi dei figli.
Che non prendono sul serio i loro slanci, le loro convinzioni. Le loro speranze». Insomma, per iniziare a leggere questo saggio colto ma dallo stile leggero e profondamente divulgativo, servitevi di quella benedetta intemperanza giovanile, un po’ arruffata come la capigliatura di Gobetti in qualcuno dei rari ritratti disponibili.
L’obiettivo è scoprire il mondo così come era e così come è diventato, attraverso le lenti da miope (ma in realtà tanto lungimirante da sembrare ipermetrope) che furono un altro tratto caratteristico dell’immagine e dello sguardo del giovane Gobetti. Antifascista dell’ora prima (a differenza di tanti altri intellettuali di sinistra che in realtà, da giovanotti, il fascino della camicia nera lo subirono eccome...). Rimasto sempre liberale. Che dall’utopia socialista, dal marxismo, ha cercato di prendere quel che poteva esservi di buono: il coinvolgimento del popolo. La classe come categoria, come insieme, ma composta sempre da individui che in Gobetti non diventeranno mai folla. Il fascismo, in fondo, è stato quel populismo (peraltro nato a sinistra) che meglio d’altri all’epoca ha saputo interpretare vizi e vezzi di una società italiana tradizionalmente pigra. Che invece Piero chiamava alla rivoluzione. Partendo dagli insegnamenti di quella che potrebbe essere una postmoderna “scuola di Atene”. Un pantheon nel quale il giovane che fu – tra le altre cose – primo editore degli Ossi di seppia di Montale, riuscì prodigiosamente a far convivere: Croce e Gentile, Salvemini, Einaudi, Prezzolini, Lenin e Trotzky. In una linea di coerenza intrinseca così complessa, fine e al tempo stesso irreprensibile da portarlo a morire da solo nella capitale francese, dove è tuttora sepolto e si trova a condividere, a Père-Lachaise, la terra che copre senza deturparne la luce, i corpi di altre stelle come Oscar Wilde, Chopin, Maria Callas e Jim Morrison.