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L'Inps simula le pensioni, ma i conti sono sbagliati

Nicoletta Orlandi Posti
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Ottimismo e approssimazione. Sono questi i due elementi che emergono dalla prima prova su strada della «busta arancione» dell'Inps effettuata da Libero. Testare il nuovo strumento per calcolare la pensione futura, messo on line dall'Istituto di previdenza dallo scorso primo maggio, non è stato semplice. Alla fine del 2016 l'operazione dovrebbe coinvolgere tutti i lavoratori, ma per ora la prima fase di sperimentazione riguarda soltanto gli under 40 iscritti al Fondo pensione lavoratori dipendenti, alle gestioni speciali (artigiani, commercianti, coltivatori diretti) e alla gestione separata. L'accesso al sistema, inoltre, è consentito solo a chi è in possesso di un pin personale. Gli altri dovranno aspettare l'invio a casa della comunicazione cartacea, poiché il servizio è per adesso precluso a Caf e Patronati.  Parametri ignorati - Sicuramente va dato atto al presidente dell'Inps, Tito Boeri, di aver messo fine ad una imbarazzante telenovela di annunci sulla busta arancione che durava ormai da anni, ma la prima impressione è che l'iniziativa «la mia pensione» abbia ancora molti bulloni da stringere. E non si tratta solo di dettagli. Al di là dei frequenti malfunzionamenti, che spesso impediscono anche a chi ha i requisiti di accedere, e di alcuni dati palesemente sballati (come un assegno risultato il 115% dell'ultima retribuzione) il problema principale riguarda il calcolo vero e proprio del futuro trattamento previdenziale. Diversi professionisti interpellati, che hanno partecipato ai seminari tecnici dell'Inps nella fase di gestazione del servizio, denominato “Simula”, ci hanno spiegato che la simulazione dell'Istituto non sempre tiene conto di tutti i parametri che possono influire, in maniera anche significativa, sul trattamento previdenziale. Il software, in sostanza, proietta la storia contributiva di ciascun lavoratore fino al primo giorno utile per la pensione di vecchiaia (o, se ne sussistono le condizioni, per quella anticipata), modulando la previsione sulla base di alcuni tassi fissati a priori. Uno è quello della crescita dell'aspettativa di vita, elaborato dall'Istat, l'altro della crescita dell'economia, calcolato sulla media quinquennale dell'andamento del Pil all'1,5%. I parametri modificabili sono, invece, quelli relativi all'ultima retribuzione e al suo incremento nel tempo, che nello scenario di base è dell'1,5%.  La realtà - Con questi coefficienti il futuro appare assai roseo. Con un stipendio attuale di 20mila euro lordi annui e 334 settimane di contribuzione dal 2008 un lavoratore a tempo determinato (nato nel 1989) nel 2060 prenderebbe di pensione 2.801 euro lordi rispetto all'ultima retribuzione di 3.125 euro. Si tratterebbe di un tasso di sostituzione fantasmagorico dell'89,62%. Ugualmente, una lavoratrice full time nata nel 1983 con 476 settimane di contribuzione dal 2003 e uno stipendio attuale di 18mila euro prenderebbe nel 2053 un assegno di 2.193 euro a fronte di una retribuzione di 2.438: l'89,96%. Anche chi ha una storia contributiva meno brillante, stando alle simulazioni reali effettuate da Libero, otterebbe comunque tassi di sostituzione di tutto rispetto. Se così fosse, perché mai tutti continuano a preoccuparsi del futuro delle nostre pensioni? Semmai ci sarebbe da capire come farà l'Inps a pagare assegni così generosi. La realtà, purtroppo, è un po' diversa da quella superottimistica del software di Boeri, il quale non ha evidentemente voluto terrorizzare i lavoratori con previsioni shock. Edulcoranti - L'edulcorante principale utilizzato dall'Inps sta nei parametri di crescita usati per il calcolo. Non tanto quello della retribuzione, che è anche modificabile, quanto quello del Pil, che è fisso e che nel sistema contributivo fa la differenza, perché è il coefficiente responsabile della rivalutazione del montante dei contributi. Alle stesse previsioni ottimistiche era arrivata, qualche mese fa, la Ragioneria generale dello Stato, che stimava, utilizzando una crescita del Pil dell'1,57%, un tasso di sostituzione medio per i lavoratori dipendenti nati nel 1980 del 78,8%. «Un dato tra i più elevati tra i Paesi industrializzati», ha fatto notare il professor Alberto Brambilla, che nel suo ultimo Bilancio del sistema previdenziale italiano a cura di Itinerari previdenziali ha svelato il trucchetto. «Dal 2008 alla fine del 2014», si legge nel rapporto, «avremmo dovuto avere, sulla base della legge Dini che prevede un Pil reale di periodo dell'1,5%, una crescita del Pil reale pari al 10,984%. Invece la rivalutazione in termini reali dei montanti contributivi è stata addirittura negativa del 4,541% e quindi la rivalutazione dei contributi versati è stata in realta del -16%». L'ex sottosegretario Brambilla si è preso la briga di ipotizzare tassi di crescita diversi. Ebbene, con il Pil all'1% il tasso di sostituzione scende dal 78,8 al 75,7%. Con un Pil allo 0,5% la pensione diventa il 70,8%. Per avere un'idea, con un'ultima retribuzione di 3mila euro il Pil più basso di un punto ci farebbe perdere oltre 200 euro lordi al mese di pensione. Forse qualcuno dovrebbe dirlo ai lavoratori. di SANDRO IACOMETTI

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