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Recovery Fund, il tranello-Europa sugli aiuti: giusto 26 miliardi spalmati in quattro anni

Fausto Carioti
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Sgombrato il campo dalla propaganda e dai nomi inglesi ad effetto (l'ultimo è il programma «Next generation», che Ursula von der Leyen ha preso in prestito dalla serie tv Star Trek), la questione degli aiuti Ue all'Italia e agli altri Paesi rovinati dall'epidemia è semplice, riassumibile in pochi numeri. Il parlamento europeo, due settimane fa, aveva chiesto alla Commissione e agli Stati di varare un fondo per la ripresa post-Covid del valore di 2.000 miliardi di euro. Stessa cifra cui puntava il governo italiano, come annunciato da un baldanzoso Luigi Di Maio: «Stiamo lavorando su un accordo che vale tra i 1.500 e 2.000 miliardi». Il pd Paolo Gentiloni, commissario Ue agli Affari economici, stimava l'erogazione necessaria in «almeno 1.000 miliardi», purché quei soldi fossero disponibili sin dai «prossimi mesi». La presidente della Commissione europea, ieri, è scesa ancora più giù: 750 miliardi di euro, dei quali 500 come aiuti a fondo presumibilmente perduto e 250 come prestiti. Una somma sino a un momento prima giudicata largamente insufficiente, ma che è bastata a scatenare l'entusiasmo nella maggioranza. Per Gentiloni è «un fatto storico»,

 

 

Di Maio e i grillini già pensano a come spendere quei soldi e Giuseppe Conte dice che è «una cifra adeguata». Pur di non concedere nulla a Matteo Salvini, si nega anche l'evidenza. Parla di «buone notizie dall'Europa» pure Silvio Berlusconi, e presto si vedrà se questo cambierà l'atteggiamento di Forza Italia in parlamento. Quei 750 miliardi, peraltro, non sono una certezza, ma il massimo che si potrà spuntare: l'operazione deve infatti essere approvata all'unanimità dai singoli Stati, il che significa che ognuno dei Paesi del nord Europa avrà diritto di veto. L'Olanda ha fatto sapere subito che il risultato finale non potrà essere quello proposto dalla von der Leyen, e Danimarca e Austria la pensano allo stesso modo. Il rischio è che il conquibus scenda ulteriormente, arrivando ai 500 miliardi ipotizzati da Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Di sicuro, intanto, c'è l'allungamento dei tempi: la stessa cancelliera tedesca, impegnata a fare da pontiere tra gli indebitati del Sud e i "frugali" del Nord, ieri ha avvertito che «le trattative saranno difficili e non saranno chiuse al prossimo consiglio europeo di giugno». Ci sarà da attendere, quindi, per capire come finirà la partita. In ogni caso i soldi non arriveranno prima del gennaio 2021, quando il programma inizierà ufficialmente, e questo aumenta il rischio che il governo Conte, dopo l'estate, si trovi costretto a fare cassa in qualche altro modo, ed è facile immaginare quale.

A CERTE CONDIZIONI
 Chi loda la generosità europea mette l'accento sul fatto che l'Italia è indicata come il principale beneficiario di quei 750 miliardi. Se la proposta della Commissione passasse così com' è, il nostro Paese otterrebbe stanziamenti a fondo perduto per 81,8 miliardi e prestiti per 90,9 miliardi. In tutto sarebbero 172,7 miliardi, il 23% del totale (dopo di noi la Spagna, alla quale andrebbero 140 miliardi). È una notizia che, però, va letta insieme alle altre. Quei soldi, intanto, non arriveranno tutti insieme, ma saranno spalmati su quattro anni: dal 2021 al 2024. E la loro concessione (c'erano dubbi?) sarà sottoposta a condizioni. Le venti cartelle diffuse ieri dalla von der Leyen abbondano di retorica e sono povere di dettagli tecnici, che in certi casi sono la cosa più importante. Vi si legge, però, che gran parte di quei soldi dovranno essere usati per «investimenti e riforme che rendano le economie degli Stati membri più forti», privilegiando «le sfide e le esigenze di investimento legate alle transizioni verde e digitale». È evidente, insomma, il tentativo di legare l'erogazione dei fondi allo sviluppo della «green economy» e all'approvazione delle riforme care alla Ue. Gli Stati membri presenteranno i loro piani, che dovranno essere aderenti al progetto europeo, e Bruxelles vigilerà. «La Commissione», spiega il documento consegnato dalla von der Leyen al parlamento europeo, «offrirà un ampio supporto tecnico» ai governi nazionali, «per garantire che i fondi siano utilizzati al meglio». Non è un'offerta d'aiuto, ma l'avvertimento che ciò che faranno i Paesi sarà tenuto sotto stretto controllo.

TASSA SULLA PLASTICA
 La Commissione europea raccoglierà sul mercato gran parte di quei 750 miliardi, emettendo titoli propri (veri eurobond, quindi). Per gli Stati più indebitati, come l'Italia, il vantaggio consiste nel fatto che la Ue è ritenuta maggiormente affidabile e può ottenere credito a tassi d'interesse più bassi. Ma chi - come i grillini - sperava in titoli "perpetui", da non rimborsare mai in cambio di un piccolo interesse annuale, è rimasto deluso: l'intera somma dovrà essere risarcita dopo il 2027 e non oltre il 2058. E il debito e il deficit dei singoli Stati si appesantiranno. Il vero vantaggio dell'Italia, oltre al tasso d'interesse più leggero, sarà la differenza tra quanto riceverà e quanto dovrà mettere nella cassa comune per finanziare il progetto. Dai primi conteggi risulta che il nostro Paese contribuirebbe con circa 26 miliardi in meno di quelli che riceverebbe a fondo perduto: cifra che spalmata in quattro anni varrebbe davvero poca roba. Tra le contropartite da pagare ci sarebbe anche l'introduzione di una nuova tassa sulla plastica non riciclabile, chiesta dalla von der Leyen per rimpinguare le casse di Bruxelles. Introdotta e poi rinviata in Italia per non affossare le industrie del settore, tornerebbe come balzello Ue nel momento in cui le nostre imprese se la passano peggio: una beffa nella beffa.

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