Il grande gelo

Davide Tabarelli, "quando dovremo razionare i combustibili": gas e petrolio, cosa accade su Putin chiude i tubi

Fausto Carioti

Diversificazione delle fonti energetiche e dei Paesi fornitori, più gasdotti e rigassificatori, aumento dell'estrazione del gas dal suolo italiano: è quello che Mario Draghi ha annunciato in parlamento ed è ciò che il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, chiede da anni. Vox clamantis in deserto, almeno sinora. Scosso dalla guerra in Ucraina, il governo sembra aver capito che non esistono alternative. Si trova costretto a fare tutto di corsa, però, e non sarà indolore.

Professor Tabarelli, cito il premier: «In assenza di forniture dalla Russia, la situazione per i prossimi inverni, ma anche nel prossimo futuro più immediato, rischia di essere più complicata». Quanto complicata?

«Rischia di essere disastrosa, apocalittica, difficile da immaginare. Se si fermano le esportazioni di gas del nostro principale fornitore è una situazione peggiore di quella del 1973. Importiamo quasi 30 miliardi di metri cubi dalla Russia ogni anno, sostituirli è impossibile».

Nel 1973, in seguito alla guerra dello Yom Kippur e ad altri eventi, gli italiani conobbero l'Austerity. Tornerà di nuovo? Sono ipotizzabili razionamenti del gas già nel corso di quest' anno?

«Se la Russia taglia le sue forniture, certo che dovremo razionare, perché altro gas in giro per il mondo non ce n'è. Le scorte ora sono buone e ci permettono di arrivare alla fine dell'inverno, che è vicina. Tuttavia, dal primo aprile occorre cominciare a ricostituirle per il prossimo inverno, quando la domanda si impenna per il riscaldamento».

Qual è lo scenario peggiore?

«Nello scenario peggiore dovremmo abbassare le temperature nei condomini e interrompere le forniture di gas ed elettricità a quelle industrie che si rendono disponibili, in cambio di un compenso. Poi usare più carbone dove possibile. Nelle case dovremo consumare anche legna e pellet. Pure nella Pianura Padana, dove adesso è vietato per inquinamento da polveri. Ma il tutto non servirà ad evitarci tagli più pesanti».

Quale apporto potrà venire dal gas liquefatto trasportato via mare, che ci sarebbe stato promesso anche da Joe Biden?

«Da mesi, in Italia, i prezzi del gas sono superiori a 100 euro per megawattora, con punte venerdì a 200, mentre negli Usa è salito un po', toccando i 14 euro per megawattora. Ci stanno mandando tante navi con Gnl, quindi, perché a loro conviene e realizzano grandi guadagni, anche se non metto in dubbio che lo facciano pure per solidarietà. Biden fa bene a promettere, ma deve chiedere aiuto ai petrolieri del Texas, che tradizionalmente sono degli accaniti repubblicani. Vedremo se glielo daranno».

Nel breve periodo, per ammissione del premier, è probabile che useremo più carbone e più petrolio. Le centrali le abbiamo, si tratta solo di farle lavorare. C'è il rischio che la soluzione "tappabuchi", facile e comoda, divenga strutturale?

«Di petrolio ne usiamo tantissimo già adesso, ma nei trasporti. Tornare al petrolio e al carbone nella generazione elettrica non è un dramma, vista la gravità della situazione. Non dobbiamo avere paura di sporcarci le mani, se vogliamo avere elettricità e calore il prossimo inverno».

Draghi ha preso atto che per non dipendere dalla Russia serviranno più terminali di rigassificazione e il raddoppio del gasdotto Tap, ambientalisti e comitati "Nimby" permettendo. Ma quanto tempo occorre per fare queste e le altre infrastrutture necessarie?

«Tutta o quasi tutta l'energia che consumiamo viene da strutture, tubi, fili, centrali, fatti nell'arco dei decenni. L'energia, quella moderna, è una questione di lungo termine e per fare nuove strutture ci vogliono anni. Per il raddoppio del Tap ci vogliono quattro anni; per completare il rigassificatore di Porto Empedocle in Sicilia, un po' avanti con le autorizzazioni, servono almeno tre anni».

 

Il gas del sottosuolo italiano è sfruttato poco. Tra le trivelle attuali e quelle che si possono costruire, di quanto può aumentare la nostra produzione in un tempo relativamente breve, diciamo entro il prossimo inverno?

«Entro il prossimo inverno, poco. Forse mezzo miliardo di metri cubi, su una produzione che l'anno scorso è caduta a 3 miliardi, minimo storico dal lontano 1954. Vale il discorso di prima, perché anche le piattaforme e gli impianti di produzione sono strutture complesse, grosse, costose, piene di acciaio e dispositivi complicati, fatti per andare sotto terra, dal fondo del mare, per duemila o tremila metri. Poi i giacimenti devono essere coltivati, come fossero un orto: vanno fatte manutenzione, ricerca ed esplorazione per capire dove si trova quello che dobbiamo produrre. E noi non facciamo questi investimenti da oltre dieci anni. È come che avessimo lasciato andare l'orto per anni e adesso volessimo subito zucchine, pomodori e asparagi».

Gran parte del rincaro delle materie prime, par di capire, sarà scaricata sulla fiscalità generale, ma poco cambia: sempre noialtri pagheremo. Quali sono le sue stime del costo complessivo per gli italiani?

«La misura più semplice, e più facile da far capire, riguarda la nostra fattura energetica con l'estero, che è tutta ricchezza sottratta alla nostra economia. Con i prezzi degli ultimi giorni andiamo oltre i 90 miliardi di euro nel 2022, un record storico, da confrontare con i 23 miliardi del 2020 e i 35 dell'anno scorso. Questo costo si spalmerà un po' su tutti, imprese e famiglie, ma l'effetto sarà quello di rallentare, se non di bloccare, la crescita. Quella crescita che doveva farci tornare alla normalità dopo la pandemia».

Draghi ha chiesto agli altri governi europei «un approccio comune per lo stoccaggio e l'approvvigionamento di gas», senza il quale per noi sarà dura. Se ne parla da anni, non si è mai fatto. Ognuno ha trattato con Vladimir Putin e Gazprom per conto proprio. Stavolta sarà diverso?

«Sì, per forza sarà diverso. La Russia è stata sempre un fornitore affidabile e lo è anche in queste ore, perché il flusso in arrivo non si è interrotto, nonostante i tubi passino proprio per l'Ucraina. In ogni caso questo approccio comune non cambia la sostanza, perché di gas in giro ora e nei prossimi anni ce n'è ben poco. Abbiamo fatto l'industria del gas dopo la Seconda guerra mondiale con i monopolisti nazionali: da noi l'Eni con la Snam, in Francia Gas de France, in Germania Ruhrgas, in Gran Bretagna British Gas. Tutte società che abbiamo smantellato, privatizzato e messo in Borsa, perché si diceva che il mercato è il dio e lo Stato è il male. Ora il mercato occorre chiuderlo e non solo serve lo Stato: servono uno Stato con l'elmetto e una vera unione di Stati».

 

 

È mancata una parola nel discorso di Draghi: «nucleare». L'unico che la pronuncia, isolato, è il ministro Roberto Cingolani.

«Il nucleare è rimasta la prima fonte a copertura della produzione elettrica d'Europa. La Germania stava chiudendo le sue centrali nucleari, anche perché vecchie, ma speriamo si sbrighi a riaprirle. La Francia produce il 70% dell'energia elettrica col nucleare e molta la manda a noi, per fortuna. Senza di essa, ci sarebbe un altro problema per il nostro sistema elettrico, che dipende per metà dal gas».

Ma nel medio e lungo periodo, si può pensare di ridurre la propria dipendenza dall'estero affidandosi all'incremento delle rinnovabili, come vuole fare Draghi?

«Le rinnovabili sono un sogno, più che un pensiero. Teniamo presente che la nostra prima fonte rinnovabile è l'idroelettrico, che copre il 20% della produzione totale. Viene da centrali che abbiamo fatto quando eravamo poveri e non c'erano gli ambientalisti che protestavano contro le dighe e lo sbancamento di intere vallate. Ci ha consentito la prima fase di modernizzazione del Paese. Oggi fare anche solo una piccola, minuscola centrale è impossibile. Quindi no, con le sole rinnovabili non ce la faremo. Non nel prossimo inverno, di sicuro».