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Manifesto per tagliare le tasse: Meloni accetti la sfida

Daniele Capezzone
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C’è qualcosa che credo di sapere sul sistema fiscale italiano, avendolo osservato da vicino non solo – come tutti i cittadini – nella parte del fagiano all’apertura della stagione di caccia (mentre il ruolo del cacciatore spetta ovviamente all’onnipotente Agenzia delle Entrate), ma anche nella veste di presidente della Commissione Finanze delle Camera, incarico che ho ricoperto per due anni, dall’estate del 2013 alla metà del 2015.

Dal 1948 ai giorni nostri, le presidenze di impronta e cultura liberale sono state rarissime in quella Commissione: e infatti anche in quella legislatura a un certo punto le forze egemoni (nel 2015 si entrò in fase di renzismo triumphans, con poderose sponde nazarene) decisero di porre fine all’anomalia, eleggendo un altro presidente.

Del resto, bisogna capirli: in appena due anni, approfittando di un governo fragile e di larga coalizione, e quindi potendo usare appieno i poteri della Commissione, avevamo segnato due gol (vedremo quali) e sfiorato una terza rete a favore dei contribuenti. Decisamente troppo per le abitudini italiane: la “deviazione dall’algoritmo” non poteva durare.

 

 

 

La battaglia vinta su Equitalia. Il primo successo fu un’enorme soddisfazione: una riforma di Equitalia (allora si chiamava così) finalmente dalla parte dei cittadini. Per mesi, avevo avuto a che fare con una valanga di lettere di artigiani, commercianti e imprenditori che mi scrivevano più o meno questo: «Noi non siamo evasori.

Abbiamo dichiarato il giusto. Poi è arrivata la crisi, e non abbiamo avuto i soldi per pagare in tempo tutte le tasse e i contributi. Abbiamo dato priorità a pagare gli stipendi ai nostri dipendenti, per non mettere sulla strada tante famiglie. Ma allora arriva Equitalia e ci strangola». Su questa base, avevo contribuito a convincere Silvio Berlusconi a fare di questo tema un punto cruciale della campagna elettorale del 2013. Già il giorno dopo l’elezione a presidente di Commissione, presentai una risoluzione (cioè un atto parlamentare tenuissimo, apparentemente innocuo, con impegni per il governo) con dentro tutti i punti qualificanti della riforma necessaria: con un po’ di lavoro efficace, quel mio piccolo documento venne non solo votato, ma addirittura firmato da tutti i gruppi, nessuno escluso.

Il retropensiero di molti era: ma cosa vuole ‘sto Capezzone, una risoluzione non si nega a nessuno, è acqua fresca. Vero, in teoria: ma con tenacia, e anche avviando una campagna mediatica piuttosto vivace, mi misi a sostenere – e formalmente era vero – che il governo aveva il dovere di recepire quel testo, dopo il voto di indirizzo della Commissione. Ricevetti segnali contraddittori: mi si disse che sarebbe stato così, ma solo dopo mie fortissime pressioni ottenni di poter leggere, il giorno prima di una seduta del Consiglio dei Ministri, una bozza della norma (quello che poi sarebbe divenuto l’art. 52 del Decreto Fare). In un pomeriggio che non dimenticherò, mi trovai a scoprire che il testo che avrebbe dovuto “ricopiare” la mia risoluzione, lo aveva invece largamente eluso e vanificato.
Beh, ora posso dirvelo: feci il diavolo a quattro, e, dopo ventiquattr’ore di pugilato, ottenni che il testo divenisse davvero un’autentica fotocopiatura di quanto la Commissione, unanime, aveva stabilito. Il risultato fu a suo modo storico, e, secondo le mie stime, protesse per qualche tempo circa 5 milioni di contribuenti.


Da quel momento in avanti, il Fisco non poteva più pignorare la prima casa; non poteva più pignorare i beni dell’azienda (se non nel limite di un quinto); non poteva più pignorare la seconda casa (se non per debiti superiori ai 120mila euro); doveva concedere fino a 10 anni di rate; e doveva accettare anche la possibilità che il cittadino non pagasse alcune rate (fino a 8 senza perdere il beneficio della rateizzazione) e potesse quindi riprendere a pagare dopo una piccola pausa.


A decreto approvato (e poi convertito dalle Camere senza stravolgimenti), non nego di aver guardato gli scatoloni con lettere dei piccoli imprenditori disperati, che avevo accumulato e conservato per mesi, con gli occhi lucidi.

 

 

Una delega fiscale (poi non sfruttata dal governo). Un secondo successo (parziale, come vedremo) fu il lungo percorso per il varo di una legge delega fiscale, cioè l’insieme dei paletti da consegnare al Governo per la revisione dell’intera architettura fiscale del Paese (attenzione: purtroppo non della quantità delle tasse, ma della loro organizzazione).

Decisi di essere io stesso relatore del provvedimento, e giungemmo a una larga approvazione della legge, che però avrebbe richiesto dei successivi decreti (detti appunto: decreti delegati).

Anche in questo caso, riuscì qualcosa di impensabile, e cioè la fissazione nero su bianco di alcuni punti di chiara impronta liberale e pro-contribuenti. Faccio alcuni rapidissimi esempi. Primo: compensazione fiscale come principio da generalizzare. Ho un debito con il fisco? Ma ho anche un credito? Devo poterli compensare e annullare a vicenda. Secondo: responsabilizzazione fiscale. Deve essere individuabile, per ciascun tributo, il livello di governo che beneficia delle relative entrate (Stato, Regioni, enti locali). Stop, quindi, al caos e alla giungla delle addizionali. Terzo: contrasto di interessi, cioè la possibilità di scaricare fatture e ricevute per favorire l’emersione di base imponibile. Quarto: destinazione del ricavato della lotta all’evasione fiscale alla riduzione delle tasse.

Quinto: riordino delle agevolazioni fiscali (cosiddette tax expenditures), ma con restituzione dei risparmi così effettuati attraverso minori tasse a famiglie e lavoratori. Sesto: stop ai sussidi a pioggia alle imprese, e restituzione di queste somme attraverso riduzioni di tasse a tutte le aziende. Settimo: recupero dei principi cardine dello Statuto del contribuente, a partire dall’irretroattività delle norme tributarie sfavorevoli al cittadino.

Inutile dirvi che il governo che fu destinatario di quel dono (approvato grazie a una larghissima maggioranza parlamentare) non ne attuò se non una minima parte. Non solo: con rara miopia, fu anche impedito alla Commissione di segnare un terzo gol, per cui avevo offerto svariate coperture, che furono tutte rifiutate, e cioè l’abolizione del bollo auto.

 

Cosa non possono fare le commissioni parlamentari senza governo. È inutile girarci intorno. Da una presidenza di Commissione, ci sono cose che puoi tentare (operazioni-pirata come la prima descritta) e ci sono imprese che invece richiederebbero l’impegno compatto di un governo e di una maggioranza.

E qui si arriva alle note dolenti: se vuoi ridurre le tasse, serve trovare le risorse per farlo. Da semplice parlamentare, non solo da presidente di Commissione, presentai proposte per un taglio-choc della pressione fiscale (fino a 40 miliardi), finanziato con tagli di spese individuati attraverso emendamenti che furono giudicati tecnicamente ammissibili (cioè coperti effettivamente) ma che non trovarono mai l’ok politico dei governi.

Ne trassi la convinzione che ho più volte trasferito qui sulle pagine di Libero: anche un governo volenteroso farà bene a immaginare un percorso di più anni (da 5 a 10, se si ha l’opportunità di governare per due legislature) per tagliare davvero le tasse, con – chiamiamola così – una riduzione di tasse trasformata in una corsa a tappe.

Può essere un modo per non darsi obiettivi irrealizzabili, per coinvolgere i cittadini in un cammino serio e senza promesse di miracoli, ma anche per evitare che le legislature passino svanendo nel nulla, senza un traguardo, senza un “senso”.

Ci sarà un governo pronto a tagliare le spese per tagliare le tasse? E a farlo nell’arco di più anni, un passo alla volta? La sfida è lì, e c’è da augurarsi che Giorgia Meloni colga questa opportunità storica mancata da troppi prima di lei (ci riuscì davvero Alcide De Gasperi, assistito dal ministro Ezio Vanoni).

 

Cosa ho imparato, nel bene e nel male. In quella esperienza, ho imparato un paio di cose negative, ma ho anche portato a casa un insegnamento che non dimenticherò. Le note negative sono presto dette. Da un lato, il ruolo debordante delle istituzioni sovranazionali che (spesso alimentate e informate in modo distorto dai tassatori italiani) premono sempre e solo per torchiare i cittadini. Non si contano più i documenti di Ocse, Fmi, e ovviamente della Commissione Ue, che sanno solo chiedere tosature e vessazioni, avendo nel mirino la casa (riforma del catasto) e proponendo ulteriori devastanti patrimoniali. Dall’altro, l’eccessivo spazio colpevolmente concesso dalla politica all’Agenzia delle Entrate, ormai dominante, che pretende essa stessa di interferire nell’azione legislativa e nella definizione delle linee guida di politica fiscale, due territori che assolutamente non le competono.

Venendo all’insegnamento da non dimenticare (e qui aleggia su di noi, amici lettori di Libero, il grande spirito della signora Thatcher), quando si parla di tasse non si parla di aspetti “tecnici”: ma siamo al cuore del rapporto tra Stato e cittadino. Lasciamo la parola alla Lady di Ferro: «Uno dei più grandi dibattiti del nostro tempo riguarda la quantità del tuo denaro che lo Stato può spendere, e quanto denaro invece puoi spendere per la tua famiglia. Non dimentichiamo mai questa verità fondamentale: lo Stato ha come risorsa di denaro solamente il denaro che la gente guadagna. Se lo Stato vuole spendere di più, può farlo solo prendendo a prestito i tuoi risparmi o tassandoti di più. Non è una buona idea pensare che qualcun altro pagherà: quel “qualcun altro” sei tu. Non esiste il denaro pubblico: esiste solo il denaro dei contribuenti». Aveva ragione lei, fino alle virgole.

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