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Volkswagen a un passo dal disastro: pronti 15mila licenziamenti

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Michele Zaccardi
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E adesso a rischiare sono i lavoratori. Dopo gli annunci e le previsioni, arrivano i numeri, che sintetizzano alla perfezione l’affanno in cui si dibatte il settore dell’auto, vero traino dell’economia tedesca. Volkswagen potrebbe tagliare entro la fine dell’anno oltre 15 mila posti di lavoro. E chiudere non due stabilimenti, come annunciato dal colosso di Wolfsburg, ma addirittura tre. A scendere nei dettagli del piano di ristrutturazione allo studio dei vertici aziendali è la banca d’affari statunitense Jefferies. Secondo il report redatto dagli analisti in seguito all’incontro, avvenuto nei giorni scorsi, con i dirigenti del gruppo, i tagli al personale potrebbero essere annunciati prima della fine dell’anno. Il progetto ridurrebbe di 500-750 mila vetture la capacità produttiva di Volkswagen in Europa e comporterebbe per il gruppo una spesa straordinaria di 3-4 miliardi di euro, associata ai costi di dismissione delle fabbriche e a quelli per gli esuberi. Con i 15 mila licenziamenti, l’organico globale del gruppo si ridurrebbe del 2%. Questo mentre la chiusura di siti produttivi in patria sarebbe una prima assoluta dal 1937, annodi fondazione del colosso tedesco.

Entrando nel dettaglio, secondo Jefferies gli oneri potrebbero aggirarsi tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro e fino a 4 miliardi ipotizzando costi di separazione pari a due stipendi annuali per lavoratore e «includendo altri costi di chiusura». Per Jefferies, i vertici aziendali sono convinti che «non vi sia un piano B» per affrontare la crisi del mercato dell’auto europeo e, quindi, sono pronti ad andare allo scontro con i potenti sindacati tedeschi. Non solo. I manager del colosso dell’automotive ritengono che i sindacati non abbiano legalmente il diritto di scioperare contro la chiusura degli stabilimenti e che quindi dovranno sedersi al tavolo per discutere modalità, tempi e quantità degli esuberi. E sono pure convinti che Volkswagen possa procedere alla dismissione dei siti senza richiedere l’approvazione del consiglio di sorveglianza, organo dove siedono i rappresentanti dei lavoratori. Di certo, però, c’è che il piano di ristrutturazione rischia di sollevare un’ondata di proteste in Germania e di mettere l’amministratore delegato di Volkswagen, Oliver Blume, in una posizione scomoda.

 


Anche perché i sindacati hanno già puntato il dito contro la gestione del gruppo che negli ultimi anni ha investito molto su software ed elettrico con risultati sinora deludenti. Come testimoniano anche i conti del primo semestre 2024. I ricavi sono sì cresciuti dell’1,6% sullo stesso periodo del 2023, toccando quota 158,8 miliardi di euro, ma gli utili sono crollati del 13,9% a 7,34 miliardi e il risultato operativo dell’11% a 10,1 miliardi. Questo mentre le vendite di veicoli hanno subito una contrazione del 2,4% a 4,24 milioni. Nel mirino dei sindacati è finita anche la decisione di Volkswagen di staccare generose cedole per i suoi azionisti nonostante le deludenti performance: nell’ultimo anno l’azienda ha distribuito 4,5 miliardi di euro in dividendi. Lo scontro, dunque, si annuncia infuocato, considerato anche che i rapporti con i rappresentanti dei lavoratori sono tutt’altro che idillici. Il costruttore di Wolfsburg ha infatti già disdetto diversi contratti collettivi, tra cui quello di salvaguardia dei posti di lavoro fino al 2029, in vigore dal ’94: una mossa senza precedenti e su cui il sindacato è pronto a dare battaglia con tutte le armi a disposizione, compreso lo sciopero. Tuttavia, spiega Jefferies, «i sindacati dovrebbero sentirsi sotto pressione per raggiungere nuovi accordi, mentre Vw sarà in grado di forzare i licenziamenti. C’è il rischio di un’interruzione degli impianti, ma i sindacati possono scioperare solo sulle retribuzioni, non sulla chiusura degli impianti o sui licenziamenti se questi ultimi non sono protetti contrattualmente».

Sul tema è intervenuto anche il governo tedesco. Il cancelliere Olaf Scholz ha detto che la priorità è «garantire i posti di lavoro e gli stabilimenti», mentre Stephan Weil, il primo ministro della Bassa Sassonia che detiene il 20% di Volkswagen ha avvertito: «Ci aspettiamo che la questione della chiusura delle sedi semplicemente non si ponga attraverso l’uso efficace di alternative». Saranno mesi duri insomma. Del resto, a inizio settembre il direttore finanziario di Volkswagen, Arno Antlitz aveva tracciato un quadro piuttosto fosco della situazione. «Abbiamo un anno o due di tempo» per raddrizzare le cose aveva sottolineato. Prima del Covid, aveva spiegato, si vendevano in Europa 16 milioni di macchine, dopo si è scesi a 12 per risalire a 14. «Due milioni di macchine però sono andate perse» e siccome la Volkswagen ha in mano il 25% del mercato europeo, «vuol dire che vendiamo mezzo milione di macchine in meno». La crisi tedesca passa dunque dalle tribolazioni dell’automotive. E il pesante calo della produzione industriale registrato a luglio (-5,3% sull’anno scorso) ne è solo la cartina di tornasole.

 

 

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