OPINIONE

Il gioco sporco dell'auto cinese contro l'Italia

di Mario Sechigiovedì 4 settembre 2025
Il gioco sporco dell'auto cinese contro l'Italia

3' di lettura

Un gigante dell’automobile di Pechino, BYD, ha acquistato su alcuni giornali una pagina di pubblicità per lanciare un’aggressiva politica di prezzo che fa leva su una sprezzante critica a quello che il marketing cinese definisce il «casino o casinò» degli incentivi statali varati dall’Italia.

Siamo un Paese libero, democratico, la libertà di pensiero è protetta dalla Costituzione, il mercato è aperto, i costruttori cinesi fanno il loro gioco sussidiato, ma questa campagna di marketing ha un punto debole che diventa un gigantesco boomerang politico: un’azienda italiana potrebbe far stampare dai quotidiani cinesi una pagina di pubblicità dei suoi prodotti per dire cosa non funziona nel Paese di Xi Jinping?

Declino il problema in maniera ancora più esplicita, mi improvviso copywriter, ecco il testo della campagna d’affissione sui muri di Pechino: «Compra un’automobile costruita in Italia, noi rispettiamo i diritti dei lavoratori!». Ho motivi più che fondati per affermare che scatterebbe in un lampo la censura del Partito comunista cinese. Alle imprese della ditta globale di Xi Jinping tutto è permesso, anche di fare in casa nostra quello che non è consentito in Cina alle nostre industrie, come per esempio vendere automobili dicendo che gli incentivi del governo sono una lotteria.

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All’interno della Grande Muraglia obbediscono al libretto rosso del partito, in Italia (e in tutta Europa) fanno «guerrilla marketing» attaccando il governo. Nessun costruttore di auto “Made in China” nei confini del Celeste Impero può pubblicare un annuncio dove critica la politica dei prezzi e il sistema del credito, la condizione dei lavoratori e la manipolazione del tasso di cambio, i regolamenti capestro e i sussidi di Stato. E nessun agente esterno che vive e lavora in Cina, azienda, manager, istituzione, libero pensatore, può pensare di esercitare da quelle parti i diritti minimi garantiti in una democrazia. Chiedere ai cittadini di Hong Kong cosa è successo con il passaggio dell’ex colonia britannica alla Cina, documentarsi sulla storia di Jimmy Lai, l’imprenditore pro-democrazia sotto processo. E per il futuro prossimo, tenere d’occhio Taiwan.

È vero, noi siamo fatti di altra pasta, perbacco, siamo europei cresciuti nel dopoguerra, liberati dagli anglo-americani, pensiamo che la pace sia eterna, che le guerre commerciali siano un’invenzione della Casa Bianca, abbiamo costruito l’ordine liberale e lo immaginiamo eterno e gratis, siamo italiani brava gente, siamo stati la culla del diritto e il buon Gesù ci ha detto perfino di porgere l’altra guancia. Ma spesso dimentichiamo che alla parola «libertà» in diplomazia deve associarsi quella di «reciprocità». La globalizzazione, di cui il presidente Xi Jinping si improvvisò alfiere a Davos qualche anno fa, non può funzionare in maniera asimmetrica, non è solo una questione di prodotto, marketing e strategia di prezzo, ma di linguaggio, comunicazione e, dulcis in fundo, di libertà.

Le imprese di Pechino godono dei vantaggi del nostro sistema, sguazzano nella nostra democrazia, fanno in casa altrui ciò che non è permesso a nessuno in Cina (neanche a loro). Quando Jack Ma, il fondatore di Alibaba, il titano del commercio elettronico, pensò di essere una rockstar dell’economia e alzò la testa per dare uno sguardo critico al funzionamento del suo Paese, sparì per mesi dalla scena pubblica.

Su questa scena di totalitarismo potenziato dal controllo del cyber-spazio - abbiamo voltato lo sguardo, lasciato fare, per commercio e delocalizzazione, per dogma e illusione, utopia e cinismo, finché non si è arrivati al punto di rottura: i cinesi hanno conquistato il dominio della manifattura, sono diventati una minaccia esistenziale per la sopravvivenza dell’industria dell’auto europea (e non solo) e ora fanno anche la pubblicità contro il governo italiano. Puntano sulla debolezza dell’Europa, sullo smarrimento dell’Occidente, si sentono in vantaggio, ma hanno dimenticato un insegnamento di Confucio: «Quello che non vuoi che venga fatto a te stesso, non farlo agli altri».