Resta l'obbligo di tenersi i fannulloni
Più che una rivoluzione copernicana, come l'ha definita il presidente del consiglio a conclusione del Consiglio dei ministri, quella varata la vigilia di Natale con i decreti attuativi della riforma del lavoro appare una rivoluzione mancata. Nulla di quanto promesso in vista della riunione di Palazzo Chigi è stato infatti tradotto in legge. Non la possibilità di licenziare i fannulloni con la formula dello scarso rendimento né il cosiddetto opting out, ovvero la possibilità di non reintegrare un lavoratore licenziato anche in presenza di una sentenza del magistrato che ordina di reinserirlo in organico, a patto di pagare un indennizzo più alto di quello previsto. Perfino i licenziamenti per motivi disciplinari sono a rischio, perché è vero che i decreti attuativi del Jobs Act prevedono che il reintegro venga sostituito con un indennizzo, ma, nel caso in cui un giudice valutasse insussistenti le motivazioni addotte dall'azienda per rescindere il rapporto di lavoro, potrebbe disporre l'annullamento del licenziamento e il successivo reintegro del lavoratore, con il pagamento in aggiunta di un'indennità. E, ancor più incredibile, anche i licenziamenti collettivi sono in bilico, perché qualora non fossero ben motivati potrebbe aprirsi la strada di un ricorso ai tribunali che manterrebbe in piedi la doppia opzione: reintegro o indennizzo. Insomma, se quella varata il 24 dicembre doveva essere una nuova caduta del muro, un confine che divide i lavoratori dalle imprese, impedendo con una rigidità che non ha eguali negli altri Paesi del mondo occidentale la creazione di nuovi posti di lavoro, si può concludere che la caduta non c'è stata. Leggi l'editoriale di Maurizio Belpietro su Libero in edicola sabato 27 dicembre o acquista una copia digitale del quotidiano