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Immigrati e poltrone: pronta la doppia eurobeffa

Matteo Legnani
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Le notizie che arrivano da Strasburgo sono due. La prima è che - pronti, via - lo schieramento a sostegno dell'operazione Schulz-Juncker rischia di perdere un pezzo. La seconda è che per l'Italia le cose in prospettiva si mettono male. Antefatto: per mettere in sicurezza le nomine davanti all'assalto degli euroscettici si decide di mettere in piedi un patto tripartito Ppe+Pse+Alde. L'accordo viene sancito: Jean-Claude Juncker (Ppe) alla Commissione, Martin Schulz (Pse) al Parlamento e Guy Verhofstadt (Alde) a subentrargli tra due anni e mezzo in occasione della staffetta di prammatica. Non un gran segnale di rinnovamento (per tacere del fatto dei trascorsi alcoolici che legano Juncker e Schulz), ma tant'è. Il patto va in porto grazie al decisivo pressing di Francois Hollande e Matteo Renzi (pressing non indolore per il premier italiano, che si vede costretto ad immolare Gianni Pittella, fino ad allora in pole per la poltrona più alta dell'emiciclo di Strasburgo) e tutto pare incardinato. Si arriva a ieri mattina, gran giorno dell'elezione. Sulla carta Schulz conta su 479 voti, tanti quanto la somma di Ppe, Pse e Alde. Quando si apre l'urna dello scrutinio segreto, però, arriva la doccia fredda: i voti per Schulz sono solo 409. Detto in altri termini, ci sono settanta franchi tiratori che nel segreto dell'urna si sono rifiutati di votare in conformità all'accordo. Fin da subito nei gruppi di socialisti e popolari si punta il dito verso i liberali: Sono stati loro, si sussurra, a smarcarsi in zona Cesarini da Schulz. Il primo indizio che porta all'Alde è quello dei numeri (il gruppo liberale consta proprio di una settantina di parlamentari). Il secondo è quello che emerge da un retroscena che è appena iniziato a circolare: il liberale Verhofstadt sarebbe stato fatto fuori con un blitz dell'ultimo minuto dalla successione pilotata a Schulz, da cui la rappresaglia dell'Alde. Questa la ricostruzione: nel lasso di tempo intercorso tra la chiusura dell'accordo e la vigilia del voto, gli equilibri del Parlamento mutano a sfavore dell'Alde (retrocesso dall'exploit del gruppo Ecr a quarta forza). A quel punto Francia e Germania decidono di forzare la mano: un fugace cenno d'intesa tra Parigi e Berlino e per la staffetta con Schulz spunta Alain Lamassoure, che è a) francese; b) popolare; c) padre nobile della politica econmica rigorista dell'Unione. Il terzo indizio arriva nel pomeriggio, quando c'è da procedere all'elezione dei vicepresidenti e quando il deputato indicato dal Movimento cinque stelle - unico fra i quindici candidati - viene clamorosamente trombato per vedere eletto al suo posto (e solo alla terza votazione, altro segnale) l'ex commissario Olli Rehn, casualmente dell'Alde. A fronte di una ripartizione che per loro prevedeva un solo vice, i liberali si ritrovano pertanto con bottino doppio. Il problema, però, è che l'Alde fa sapere di non considerare sufficiente il risarcimento e di essere intenzionata a battere cassa in sede di assegnazione poltrone. Il tempo per mettere mano all'accordo c'è (il Consiglio chiamato ad eleggere Juncker e resto della squadra è il 16 luglio) ed i margini di manovra, in una materia magmatica come quella delle nomine, sono ampi. E qui si arriva alla seconda notizia, quella delle cose che in prospettiva si mettono male per l'Italia. Gli smacchi per il nostro Paese sono due: uno attuale ed un potenziale. Quello attuale è la certificazione dell'inutilità del sacrificio di Pittella. Partito presidente in pectore, arrivato subentrante nella staffetta ed uscito da semplice capogruppo del Pse, il parlamentare lucano è stato immolato per favorire una candidatura, quella di Verhofstadt, durata lo spazio di un mattino. Colossale figuraccia per la prima delegazione (31 deputati) del Pse e pagina da dimenticare in fretta. Più gravido di conseguenze, tuttavia, risulta essere lo smacco potenziale. Perché adesso ad insidiare l'accordo di massima sulle nomine - che all'Italia assegna l'Alto rappresentante della Politica estera e di sicurezza comune (Pesc), posto cui il governo ha destinato il ministro degli Esteri Federica Mogherini - oltre al blocco dell'Est Europa ci sono anche i liberali, le possibilità che la ruota del Cencelli continentale torni a girare, e che lo faccia in verso sfavorevole al nostro Paese ci sono: rischiamo, in sostanza, di non prendere nemmeno la Pesc. Al momento si tratta solo di un'ipotesi, ma già il solo fatto che circoli è significativo. Un posto come la Pesc, ad alto impatto simbolico ma a limitato potere, è l'atout ideale per riaprire la partita in queste condizioni: quale miglior posto da dare a qualcuno cui va al contempo tributato un qualche prestigio ed impedito di mettere troppo piede nella stanza dei bottoni? Resterebbe il problema della compensazione all'Italia. E la fregatura si concretizzerebbe proprio qui. L'idea che va prendendo piede è quella di apparecchiare come piano B l'assegnazione al nostro Paese del nuovo commissario all'Immigrazione le cui deleghe Juncker medita di scorporare appositamente dagli Affari interni. Scenario da incubo (nonostante in Italia l'idea raccolga estimatori dalle parti di Forza Italia), che risulterebbe nel peggior scenario possibile: l'Italia incassa una scatola vuota, continua a far fronte in solitaria all'emergenza immigrati ed in più non può nemmeno aprire bocca con l'Europa che più che averci dato il commissario che altro poteva fare. E che dal punto di vista politico - commissario o non commissario - le cose non paiano destinate a cambiare lo dimostrano, da ultimo, anche le parole di un portavoce del ministero dell'Interno tedesco raccolte ieri da Affaritaliani.it: in materia di migranti, sostiene la fonte rifacendosi al trattato di Dublino, «la responsabilità è dell'Italia». E se in Germania arriva dall'Italia un richiedente asilo? «Lo rimandiamo indietro». di Marco Gorra

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