Medio Oriente, gli errori di Obama: così gli Usa regalano Israele a Putin
Quella dei telefoni è in assoluto una delle immagini più ricorrenti nella narrazione degli accadimenti contemporanei in cui è coinvolta l'America. Non più semplice metafora delle relazioni tra gli snodi su cui corre la corrente delle cancellerie di tutto il globo, nell'era della Rete è interfaccia vera e propria del potere. Dopo avere letto del voyeurismo telefonico della NSA a danno della cancelliera o avere ascoltato le trascrizioni clandestine della negoziatrice americana Victoria Nuland che inveisce contro l'Unione Europea, ecco che le immagini telefoniche tornano a popolare le cronache. Questa volta è il Medio Oriente a regalarci l'immagine di una linea telefonica rovente - quella tra Gerusalemme e Washington, dove il legame storico tra le amministrazioni americane e Israele sembra soffrire più del solito sotto la presidenza Obama. A una linea rovente fa da contrappunto la nuova linea rossa tra Putin e Netanyahu, paradigma di convergenze mediterranee in controtendenza rispetto alla strategia americana per il Mare Nostrum. A Gerusalemme la dottrina obamiana della democrazia a tutti i costi è sempre stata vissuta con crescente sospetto. Democrazia non fa infatti rima con stabilità, né con sicurezza. È per questo che la sistematica rimozione di autocrati secolari - i kemalisti in Turchia, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia - ha lasciato sgomenti gli israeliani. Specie se nel frattempo Washington ha riaperto i canali di dialogo con Teheran, creando scompiglio tra i Sauditi. Puntuali, le elezioni sono arrivate, come è arrivato l'avvento di gruppi islamisti come l'AK Party (Turchia) o la Fratellanza Musulmana (Egitto e, in parte, Libia). È bastato poco per capire che tra gli ispirati discorsi di Obama e la realtà lo scarto era notevole, che evocare la democrazia non bastava a dare nuovo benessere e che far rotolare le teste di qualche vecchio dittatore non portava né pace né pane. Anche in uno scacchiere complesso e spesso crudo come quello mediorientale, chi abbandona l'alleato di un tempo o contribuisce ad eliminarlo porta il marchio dell'ambiguità e inaffidabilità. È per questo che Israele, che non ha mai reciso i legami con la Russia, preferisce rinsaldare i legami con Vladimir Putin anche mentre impazza la crisi ucraina e americani ed europei ragionano su sanzioni più severe contro Mosca. Putin è un capo di Stato dal pugno di acciaio e con eccessi che fanno gridare allo scandalo molti benpensanti. Resta il fatto che quest'uomo, l'uomo che si fa ritrarre mentre caccia tigri siberiane, ha due enormi atout. Il primo è che Putin agisce razionalmente e con decisione quando individua pericoli alle porte di casa in grado di contagiare la Russia: è razionale e non emotivo né in balìa dell'opinione pubblica. Come quando nell'arco di pochissime ore convinse Assad a desistere dall'inasprimento della guerra civile, evitando il definitivo deflagrare della Siria in un pulviscolo di instabilità capace di incunearsi in tutto il Medioriente e in Asia Centrale. Il tutto mentre in Occidente era in corso l'abituale contorsionismo intellettuale sul da farsi. O come quando, mentre gli americani dovevano ancora decidere come posizionarsi di fronte al colpo di coda dei militari egiziani di Al-Sisi, si precipitò a inviare consiglieri militari in Egitto. Il paradosso di questi giorni è che proprio ciò che turba l'opinione pubblica occidentale riguardo a Vladimir Putin ne rafforza le credenziali agli occhi di Netanyahu - ma anche di altri attori mediorientali. Il secondo atout di Putin è che non abbandona i propri alleati, fossero pure canaglie conclamate o imbarazzanti figure degne delle parodie di Sasha Baron Cohen, con ville lussuose e ricchezze pacchianamente esibite mentre la popolazione patisce la fame. Putin è costante, e la costanza è apprezzata in contesti difficili. Dunque: razionalità e affidabilità. Pare poco, ma in Medioriente è tutto. Altrimenti non c'è negoziato con l'Iran che tenga. di Giovanni Castellaneta