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Coronavirus, per la Cina come Chernobyl per l'Urss: verso la fine del regime comunista?

Marco Rossi
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E se il disastro di Whuan si rivelasse per la Cina e per il suo regime l'equivalente di Chernobyl per l'Urss? Allora la sciagura nucleare, taciuta in spregio anche dei bambini, demolì qualunque fiducia del popolo nel comunismo sovietico. Oggi in Cina c'è una ribellione che si esprime in milioni di messaggi, che traboccano dalle case ridotte a sarcofagi di appestati. Vedremo. I paralleli storici sono imperfetti, ma gli eventi qualcosa insegnano. Alla lunga un totalitarismo non regge, fa scattare una molla di resistenza e di ribellione. Si sopportano persino le guerre. Ma le menzogne sulla salute, fino a mettere a repentaglio le vite dei propri cari, no. Si accetta di chiudere gli occhi sui Gulag siberiani e sui Laogai mongoli: capitano sempre agli altri, io me la caverò. Ma l'inganno perpetrato ossessivamente, togliendo ogni difesa contro un nemico invisibile, genera una resilienza che fa tremare il potere. Il quale reagisce accentuando i consueti sistemi repressivi. Ma poi (forse!) qualcosa si spezza. Xi Jinping sapeva sin dal 6 gennaio scorso del potenziale enorme del contagio, eppure tacque, oggi i cinesi lo sanno. Questa sequenza somiglia a quella accaduta a Kiev e Mosca allorché si ebbe notizia della fusione catastrofica del reattore nucleare nella centrale ucraina, il 26 aprile 1986. Leggi anche: Coronavirus, Diamond Princess incubatore di morte? Non era successo nulla - dissero - sciocchezze. Ci vollero gli allarmi di istituti svedesi e tedeschi per costringere i capi comunisti ad ammettere qualcosa, mentre la popolazione locale fu lasciata respirare radioattività letale. Soprattutto: i bambini furono costretti a frequentare la scuola, e i canarini morivano nelle gabbie, e i colombi cascavano al suolo come sassi. È singolare constatare ieri come oggi l'atteggiamento dell'opinione pubblica progressista. C'è quasi un riflesso condizionato permanente. Si tratta sempre e comunque di depistare. Di togliere le responsabilità al regime comunista, per appiopparle al nemico di comodo. L'allarme nucleare servì in quegli anni a mettere fuori gioco in Italia l'energia nucleare, quasi che il disastro non fosse colpa dei sistemi di sicurezza risibili adottati da chi del popolo se ne frega, ma dell'uranio! La sinistra così contava di tutelare il proprio sogno di un paradiso rosso, deviando il bersaglio dell'indignazione. Allo stesso modo oggi, pur di non imputare alla superpotenza asiatica il vile silenzio, l'assenza di qualsiasi rispetto per il popolo, trattato come una cavia, si cerca di attaccare l'allarmismo. Purtroppo con ottimi intenti lo fa anche Civiltà cattolica, onde evitare la caccia all'untore. Basterebbe dire che l'untore non sono dei poveri disgraziati che vanno accolti e curati, e neppure un popolo innocente che è vittima, ma semplicemente il regime totalitario che minaccia tutti. È capitato a chi scrive di essere trattato come un seminatore di paura. Ho provato a prendere sul serio gli scienziati che non hanno alcuna certezza, se non quella di non sapere come fermare la pandemia. L'ultima dichiarazione dell'Oms (Organizzazione mondiale della sanità ) è: «Impossibile prevedere». Il Partito comunista cinese ha cercato fino all'ultimo di impedire che si propagasse la notizia del virus, incarcerando l'eroico medico cattolico Li (vedi ieri l'articolo di Antonio Socci) che aveva comunicato sui social la sua scoperta nello scorso dicembre. Quindi Pechino ha fatto pressioni sull'Oms perché non suonasse le sirene. Infine la bolla è scoppiata. 53 milioni di persone sono confinate agli arresti domiciliari nello Hubei, la regione di Whuan. Ed è chiaro come il sole che Xi è disposto a tutto pur di non scivolare dal trono. Per salvare il regime sta spostando il bersaglio dell'odio. Prova a deviare la resa dei conti contro il Pcc verso il popolo intero di Wuhan, considerato esso stesso virus mortale. Non ci si crede, ma la censura di regime lascia mano libera a una guerra civile territoriale. Nota il corrispondente di Le Figaro che il motore di ricerca della piattaforma di video Douyin (Tik Tok) dà come primo risultato, digitando il nome della provincia, questa frase choc: «Tutti quelli dello Hubei devono morire». Credete sia un caso quest'odio? È istintivo, vero. Ma anche coltivato. La prova? Tutto doveva restare segreto per i forestieri. Qualche sciocco cacicco locale si è fatto pescare però con le mani nel sacco. E ha diffuso un comunicato per auspicare la delazione, con un premio, come per la cattura degli ebrei. «Una ricompensa di 2000 yuan (circa 300 euro) è prevista per coloro che denunceranno soggetti originari dello Hubei o che ci sono stati dopo il 21 gennaio». Ad annunciarlo è il governo di Changchun, nella provincia settentrionale dello Jilin, postato lo scorso 5 febbraio. Un grande flagello Pechino intanto fa sapere che le cose migliorano. I morti ieri sono stati "solo" 104, contro i 142 di domenica e i 143 di sabato. «Il contagio è sotto controllo», dicono. Speriamo. Le notizie che filtrano, superando la censura, sono però assai meno rasserenanti. Basti sapere come i capi cerchino di preservare i loro pari. La sessione di marzo del Parlamento, dove i deputati sono chiamati a ratificare le decisioni del Supremo Organo, è stata rimandata sine die. Mai successo. La salute della casta dei mandarini rossi prima di tutto, come no? Eh sì, la realtà non corrisponde affatto alle veline del comunismo regnante e terrorizzante, che si affianca al coronavirus e mostra una faccia persino più terribile del microscopico killer. Xi Jinping ha rafforzato le classiche misure staliniste e la loro crudeltà. Ma stavolta scherza con una scorza antica, più antica del comunismo. E torna la domanda: se in Cina il coronavirus avesse la forza orribile di abbattere il regime? Non la malattia in sé, ovvio, ma la coscienza popolare che ne è sgorgata. Viene in mente Don Abbondio. Scampato il pericolo, si guarda intorno, e a contagio esaurito constata: «È stata un gran flagello questa peste, ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti che, figlioli miei, non ce ne liberavamo più». (A. Manzoni, I promessi sposi, capitolo XXXVIII). Era il 1630. Poi ci fu Chernobyl, Unione Sovietica, 1986. Quindi Wuhan, 2020. di Renato Farina

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